ZU, Massimo Pupillo
Se possiedi un suono più che riconoscibile e vuoi continuare a farti rispettare, forse l’unica cosa da fare è quello di “tradire” quel suono, altrimenti avrebbe meno senso continuare… Devono averla pensata cosi Massimo Pupillo, Luca T. Mai e Tomas Järmyr, ed hanno fatto bene. Non si tratta certo di un tradimento, bensì di una ferrea volontà di cercare altre strade stilistiche e l’ultimo album, Jhator, sembra avvalorare questa lettura della realtà. Li abbiamo contattati e le parole di Pupillo sono tutte da leggere.
Angelo Borelli: Penso di aver assistito ad uno dei vostri primissimi concerti, nel 1998 al Forte Prenestino di spalla agli Half Japanese. Ricordo che all’epoca venivate presentati come una sorta di emanazione dei Gronge: potete parlarmi del vostro legame con lo storico gruppo romano?
Massimo Pupillo: Hai visto proprio il nostro primissimo concerto! Dovresti vincere qualcosa forse… Per venire alla tua domanda: sì, abbiamo fatto tutti e tre (allude anche al batterista Battaglia, ndr) parte dei Gronge per un breve periodo. Io e Luca abbiamo avuto altri progetti anche prima, noise-rock, industriali e altro…
Maurizio Inchingoli: Io invece ricordo di avervi visto dal vivo un paio di volte, una era al periodo di Carboniferous al Locomotiv di Bologna (l’altra di supporto a Fantômas Melvins Big Band). Ricordo che a un certo punto il pubblico è impazzito, è cominciato un pogo assurdo e ho dovuto arretrare un po’… non mi succedeva dall’epoca punk-hardcore. E il tutto senza suonare neanche una chitarra…
Beh, ma non siamo certo gli unici, anche i Lightning Bolt fanno pogare di brutto e non hanno neanche il sax baritono! Credo che conti l’energia che ti attraversa e che arriva, e non la strumentazione che utilizzi.
M.I.: Mi pare di capire che in Jhator vogliate premere sull’acceleratore della Kosmische Musik e della psichedelia…
Psichedelia vuol dire letteralmente espansione della coscienza, quindi come termine ci sta benissimo, anche se recentemente è andato a descrivere band di generic-rock con assolo di chitarra di venti minuti, il che ci interessa molto meno! Se con Kosmische ti riferisci a cose come Tangerine Dream, sono ascolti che io e Luca abbiamo avuto praticamente da bambini, quando stranamente quel tipo di cose le trovavi facilmente nelle case dove andavi. Band come Popol Vuh, ad esempio, hanno fatto sempre parte dei nostri ascolti, quindi è normale se li senti apparire in qualche modo nella nostra musica.
A.B.: Rimaniamo su Luca. Il suono del suo sax baritono caratterizza da sempre in maniera molto decisa la vostra musica, nell’ultimo disco tuttavia è totalmente assente: com’è avvenuta questa scelta e qual è stato il suo ruolo?
Luca ha lavorato molto con l’elettronica negli ultimi anni ed era chiaro che il secondo lato sarebbe stato basato su delle tracce che aveva scritto lui. Credo che sia importante non identificarsi come strumentista, ma guardare alla musica capendo cosa vuole un brano da me piuttosto di cosa voglio io da lui. In questo caso queste due composizioni chiedevano dei timbri particolari, il koto, gli archi, la ghironda, la tuba
A.B.: Avete trovato il sostituto di Jacopo Battaglia in Tomas Järmyr, batterista dei Motorpsycho: come siete arrivati a lui?
Prima di tutto ti puntualizzo che i Motorpsycho lo hanno chiamato recentemente. Lo abbiamo trovato prima noi da Roma che loro nella stessa città! A parte queste piccolezze… Tomas suona anche con un fantastico duo chiamato Yodok, e mi aveva invitato a registrare con loro a Trondheim. Quando l’ho sentito dal vivo non ho avuto neanche un istante di dubbio sul fatto che avevo anche trovato il nostro nuovo batterista. Lui era un fan degli ZU da molto tempo, quindi è stato felice ed entusiasta.
A.B.: Da sempre siete aperti nei vostri dischi ad apporti esterni, questo però sembrerebbe, più di tutti gli altri, un lavoro corale: potete parlarmi dei musicisti ospiti in Jhator?
Infatti sul disco non specifichiamo ZU e ospiti, è una formazione corale di undici elementi, tutti amici che si sono prestati e offerti di partecipare a quest’album, condividendone insieme la spinta creativa. Non possiamo che essere profondamente ed eternamente riconoscenti a queste persone. Un disco come questo, registrato in cinque studi diversi in tutto il mondo qualche anno fa sarebbe costato come “The Wall”, invece è stato gestito come al solito, prodotto da noi ma con l’aiuto di tutti questi amici che si sono offerti di partecipare. In seguito è stato mixato da un altro grande amico, David Chalmin, nel suo studio di Parigi, dove registra molta musica classica, ma lavora anche con band come The National, ad esempio. È stato un lavoro che è stato concepito e portato avanti con profondo amore e per questo è assolutamente un album corale, o meglio direi famigliare.
A.B.: Gli ultimi due/tre anni non sono stati un bel periodo per la musica dal vivo nella Capitale, fra spazi che chiudono, altri che vengono chiusi e manifestazioni cancellate: secondo voi è più l’effetto di un modello di fruizione culturale calato dall’alto, che magari tende a privilegiare i grandi eventi a danno delle piccole realtà, anche storiche, o piuttosto la spia di un cambiamento nei gusti e nelle preferenze del pubblico?
Direi che una cosa non esclude l’altra, e anzi entrambe si rafforzano. Potrebbero esserci molti fattori in azione. L’Italia si era molto aperta ad un certo punto, c’erano band che avevano davvero un respiro internazionale (ci sono ancora, ma qui da noi sono relegate nel più oscuro underground). Di fatto quando suoni all’estero senti spesso uno stacco con quello che succede da noi, e sembra che questo sia parte di una lunga storia. Per cui mentre in Inghilterra usciva che so, The Dark Side Of The Moon, qui da noi avevamo in classifica “Viva La Pappa Col Pomodoro”. Più o meno quel divario è rimasto. Mi viene su un po’ di fastidiosa vena polemica, ma non posso non pensare a riviste o portali o etichette che si spacciano come indipendenti, ma di fatto propagano bieco pop e cantautorato italiano. Io non ho nessun problema che esistano il pop o i cantautori, ma almeno dichiaratelo! Quando quella roba viene spacciata come indie qualche prurito mi viene. Quando sono cresciuto io, indie erano i Sonic Youth, i Dinosaur Jr. o i Sebadoh, com’è possibile che la stessa parola ora denomini dei cloni di Venditti o di Luca Carboni o degli Stadio? Ad ognuno il suo, no? Questo ha creato una confusione linguistica e di campo che secondo me fa molto male, e declassa le vere band indipendenti nell’oscurità totale. Però un po’ di paraculi ci si stanno arricchendo sopra o per lo meno ci campano bene.
Ho molti amici che hanno provato a gestire dei luoghi dove si fa della vera musica, ti parlo di Giampaolo dell’Init, di Toni al Dal Verme, e anche altri posti in giro per l’Italia.
Fa impressione varcare un solo confine e trovare in Francia locali aiutati e supportati dallo Stato, e tornare qui e trovare i nostri amici che non solo non vengono aiutati da nessuno, ma addirittura sono ostacolati con una pervicacia e una durezza e trattati come pluri-pregiudicati. Quando viaggi e vedi che questo avviene su tutto il territorio nazionale, non possono non venirti dei dubbi che questa sia una tendenza non casuale, bensì voluta dall’alto, e che in questo esperimento della Cia chiamato Italia, per citare Chomsky, si voglia proprio che le persone stiano a casa a farsi sciacquare il cervello dalla TV. E che ogni aggregazione spontanea venga vista dall’alto come pericolosa.
A. B.: Vi capita molto spesso di fare concerti al di fuori dei confini italiani, dove la vostra proposta musicale riscuote consenso da molti anni. C’è un Paese dove vi piace suonare particolarmente?
Posso dirti che non riesco proprio a funzionare in questo modo, non somiglio per niente a quel personaggio che stilava sempre la lista dei suoi cinque preferiti in tutto. Ogni luogo è diverso e ha i suoi pregi. Ci è sempre piaciuto molto suonare in Giappone, ma anche perché semplicemente andare a spasso per Kyoto è già una cosa fantastica. A me piacciono molto l’Est Europa e la Russia perché il pubblico ascolta con una attenzione diversa dalla nostra, con più entusiasmo e partecipazione. Il Messico è stato fantastico oltre ogni rosea previsione. In Cile c’è stato uno dei concerti più assurdi della nostra vita, abbiamo suonato con Mike Patton in un’arena per 13 mila persone. Ogni posto ha il suo. A me ultimamente piace molto suonare in Inghilterra perché c’è un pubblico molto aperto e preparatissimo. Cambiano i motivi, in alcuni posti c’entra magari il fascino del luogo, per esempio in Turchia, in altri sono più il live e la reazione del pubblico a fare la differenza.
A. B.: Di recente i membri di una band italiana, i Soviet Soviet, sono stati arrestati al loro arrivo negli Stati Uniti per violazione della legge sull’immigrazione e rispediti a casa. Secondo la vostra esperienza nel Paese è il sistema americano ad essere spaventosamente restrittivo o certe brutte storie potrebbero essere agevolmente evitate con un po’ di accortezza?
Li capisco benissimo, il visto costa davvero troppo per una band medio piccola (come noi, e come credo i Soviet Soviet, che onestamente non conosco). Anni fa anche noi ci andavamo spesso, ed entravamo sempre come turisti, non ho problemi a dirlo. Negli ultimi anni non siamo più andati in tour negli USA per vari motivi, sia pratico/logistici che “ideologici”, ma anche perché i live sono organizzati diversamente dall’Europa e spesso un tour lì è davvero ai confini della realtà. Senti il capitalismo nell’aria ancora più di qua, se possibile. I club non ti regalano nulla, il cibo è spesso terrificante, e fra una città e l’altra sembra di stare in un film di David Lynch. Va bene per qualche tour, quando sei giovane ed entusiasta e dentro di te pensi “wow, siamo in America!”, ma poi dopo un po’ di anni ci pensi anche due volte prima di andare. Le ultime due volte ci siamo andati per dei festival, abbiamo suonato e siamo ritornati subito indietro.