ZU, Jhator
Facciamo un esperimento? Diamo da ascoltare questo disco a qualcuno che ancora non l’abbia fatto, a qualcuno che conosca anche in maniera approfondita il repertorio degli Zu. Le possibilità che costui possa attribuire la paternità di Jhator al gruppo romano sono vicine allo zero. Nella loro storia ventennale gli Zu sono riusciti a sviluppare uno stile originale che è valso loro le attenzioni di pezzi grossi come John Zorn, Eugene Chadbourne, Mike Patton, King Buzzo, fra gli altri. Il linguaggio di Massimo Pupillo e Luca T. Mai, ora affiancati da Tomas Järmyr, attuale batterista dei Motorpsycho, è sempre rimasto fortemente riconoscibile, pur passando attraverso diverse fasi, dal jazzcore degli esordi alle digressioni math di Carboniferous e al grind duro e puro di Cortar Todo. Quest’ultimo lavoro, invece, stravolge il loro modo di fare musica, ancor più del disco del 2014 con Eugene Robinson, quello che fino ad ora rappresentava la parentesi più eterodossa della loro storia.
Jhator, quaranta e rotti minuti di ambient cosmico ibridato con una sorta di doom depotenziato, guarda con insistenza a Oriente, ad altre culture, ad altri modi di fare musica, ed è innegabilmente legato alle scelte esistenziali di Pupillo, ai suoi viaggi in Tibet, alla sua permanenza in un piccolo villaggio peruviano, ma a ben vedere ha anche molto a che fare con il percorso artistico di Mai, coi suoi progetti paralleli, fra tutti il recente Divus, in cui il suono dello strumento viene plasmato in modo da renderlo complice ideale dei synth modulari di Luciano Lamanna. È proprio la scelta di Luca di smarcarsi dal ruolo di sassofonista in favore dell’elettronica, unita al contributo dei musicisti ospiti, a caratterizzare in maniera decisa la genesi di un disco che si configura come vero punto di svolta.
Jhator è diviso in due lunghe tracce, una per lato, di una ventina di minuti circa ciascuna, che evocano scenari diversi ma in qualche maniera complementari. “Sky Burial” è ispirata alla pratica tibetana del “funerale celeste”, nota appunto come Jhator (“fare l’elemosina agli uccelli”), nella quale il corpo del defunto, opportunamente preparato, è affidato alle “cure” di avvoltoi e altri volatili necrofili. Il brano è introdotto da colpi di gong sui quali si inserisce un drone che riproduce in maniera velata cinguettii e battiti d’ali, quindi fa il suo ingresso il tema della ghironda, strumento che pensavo avesse diritto di cittadinanza solo nei dischi di Branduardi, e invece si rivela qui suggestiva ed efficace nel fare il passo del pezzo, funerea e solenne quanto basta. In una sorta di secondo movimento il suono sembra cristallizzarsi dando vita ad un ambient abbastanza bloccato; il fuoco incrociato di synth e distorsioni fa il resto, accompagna lo strazio delle spoglie terrene nell’ultima parte, dischiude i grandi spazi su cui si stagliano l’arpeggio di chitarra e la batteria dal chiaro sapore doom.
Il secondo lato ospita “The Dawning Moon Of The Mind”, ispirata all’omonimo libro di Susan Brind Morrow, in cui la scrittrice americana interpreta i testi delle piramidi egizie in chiave filosofica e religiosa. Anche qui quindi morte e sepoltura sono all’origine di un pezzo che però si muove su linee diverse rispetto quello sulla prima facciata: prende le mosse dal suono del koto che viene funestato da sfrigolii sintetici, un disturbo che cresce fino a diventare predominante in attesa di archi e voci celestiali a segnare il finale. Traccia meno coesa, meno organica della precedente, giocata sulla frantumazione della narrazione più che su un flusso continuo di immagini. La band sembra aver superato quell’horror vacui che bene o male caratterizzava la sua produzione e, se dei punti di contatto dobbiamo trovare con la discografia precedente degli Zu, li rintracciamo nella ricerca, anche in atmosfera rarefatta, di un suono comunque grosso, possente, wagneriano mi verrebbe da dire. Bene così.