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ZU & EUGENE ROBINSON, The Left Hand Path

ZU

2009, l’anno di Carboniferous. La storia è risaputa: finalmente un’etichetta “grossa” (non che la Wallace non lo fosse, ma con una come la Ipecac hai tutto un’altro “respiro”) a fare da traino per quello che ai tempi era un vero e proprio fenomeno tutto italiano: gli Zu.

Il giudizio “ex cathedra” espresso da John Zorn quando qualche anno prima uscì Igneo (2002) era stato una sorta di anticipazione del successo che di lì a poco sarebbe detonato: “You have created a powerful and expressive music that totally blows away what most bands do these days…”. Il 2009 fu inoltre l’anno di un video assai misterioso a nome “The Left Hand Path”, firmato da gli Zu, ma anche dal “Whipping Boy” Eugene Robinson. Probabilmente non ci si fece caso più di tanto, soprattutto perché da come “suonava” (non propriamente “à la Zu”) sembrava qualcosa di parecchio estemporaneo, considerando a maggior ragione che negli anni precedenti i tre avevano messo su collaborazioni free jazz senz’altro più  sontuose (Spaceways Inc., Mats Gustafsson o un altro Eugene, Chadbourne), che prevedevano anche incursioni in ambiti elettronici “facili” tipo Økapi o Nobukazu Takemura, quest’ultimo in anticipo persino sull’Amon Tobin degli esordi a titolo Cujo. No, quella con Capovilla e soci non la conto, mi scuserà la redazione del Teatrino Degli Errori, conto invece la trasversalità impugnata nel post-industrial dei Black Engine (Zu più Eraldo Bernocchi). L’apice insomma, poco prima della scomparsa, comprensibile e “preannunciata” con tutta questa mole di “mordi e fuggi” con altri musicisti, quindi, tanto per non fare torto a nessuno, citiamo anche la partecipazione di Massimo Pupillo nel supergruppo Original Silence. Altra storia che conosciamo: Battaglia lascia, Luca Tommaso Mai si fonde con Zitarelli (i due si erano già incrociati negli Udus) per creare il voo-doom caratteristico dei Mombu e Pupillo se ne va a fare l’eremita in zone desolate del pianeta (non il primo, ok, però occhio che ad alcuni – vedi MacLise – non è andata così bene).

Oggi non siamo più nel 2009, siamo nel 2014 e gli Zu sono a “quasi” pieno titolo tornati; giudicheremo poi, a seconda dello strascico che saprà lasciarsi Goodnight, Civilization. Non siamo però qui a raccontarvi dell’ultima, “mirabolante impresa” in studio, che, come sempre succede, si tira dietro tutti i nuovi proseliti di turno avversi a chi invece vede nella formazione rimaneggiata (nonostante, appunto, per alcuni solo l’assenza di Battaglia rappresenti uno stravolgimento bello e buono) un sussulto fuori tempo massimo. Non vi dirò la mia: a questo punto esprimersi sulla new entry Gabe Serbian, già ribattezzato “quello dei Locust”, è francamente come sparare sulla Croce Rossa. Certo m’è mancato quel cuore tamburo battente che tuttora sa rendermi vividi ascolti di brani come “Detonatore”, “Muro Torto” o “Carbon”, ma questo riguarda un sentito mio, personale. Tant’è, in ogni caso della sortita di Goodnight, Civilization mi importa poco, sta di fatto che questo è il momento giusto. Momento giusto per cosa? Ritorniamo in tema, andando a qualche riga più in alto. Ci interessa quel video, quello con Eugene Robinson. Finalmente “The Left Hand Path” è uscito per intero. Ho scritto a sproposito e quei pochi rimasti a furia di leggere si saranno o addormentati o imbottiti di aspettative. Va precisato che in quel momento della loro carriera gli Zu avevano già ampiamente dato e un lavoro dove potessero essenzialmente fare “quello che volevano” era una giusta ricompensa. Un amore sincero quello nei confronti di Robinson? Non lo so. Senz’altro il disco suona molto più simile a un qualcosa degli Oxbow che non ad altro. Ricordiamoci anche di certe attitudini verso un art-punk-rock “altro” sviluppate dai tre nel gruppo “teknopunkcabaret” Gronge, e aggiungerei l’amore, questa volta vero, verso i più riottosi Negazione (se poi la cover di Tutti Pazzi te la introduce Danny De Vito…). Forse qualcuno, sentendosi di non rischiare troppo, direbbe dei diciannove brani, decantati, urlati, sommessi, quasi permeati da un’enfasi “ermetica” (non soltanto una suggestione, forse, vista la durata) e circostanziati dentro un vissuto quotidiano surreale, che si tratta di un (baby?) blues depressivo e, come mai tentato prima dagli Zu, atmosferico e “scarnificato”.

Ascoltato oggi con uno sguardo volto a ieri, più che di un disco si tratta di un momento preciso, e anche sfuggente, ma finalmente immortalato di quella parabola musicale chiamata Zu.