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ZOLA JESUS, Arkhon

C’è una luce nell’oscurità di Arkhon, il sesto album di Zola Jesus, slittato da maggio a fine giugno, per la family di Sacred Bones, a seguire Okovi del 2017. Okovi che aveva rappresentato una sorta di ritorno a casa, a sonorità nelle intenzioni di nuovo maggiormente sperimentali, come ai tempi dei primi dischi del 2009-2010, tanto da richiamare Alex DeGroot a collaborare, quasi a compiere un passo indietro rispetto alle tentazioni mainstream di Taiga del 2014 (unico a essere uscito su Mute). Abituata a fare in pratica tutto per conto proprio, stavolta Nika Roza Danilova si è spinta oltre, anche per mettersi alle spalle lo spettro di un blocco creativo, e ha chiamato in squadra sia il produttore Randall Dunn, scelto per il suo lavoro con i Sunn O))) e con Jóhann Jóhannsson per la colonna sonora del film di culto Mandy, sia il batterista-percussionista Matt Chamberlain, già ai servigi di David Bowie e Fiona Apple. Avevo bisogno di nuovo sangue. Avevo bisogno di qualcun altro, ha affermato la diretta interessata, a suo agio ovviamente in questi panni “vampireschi”, abituata da sempre com’è a intrecciare immaginario gotico, wave e soulful (electro)pop.

La parola “Arkhon” deriva dal greco antico, a conferma della predilezione per titoli misteriosi e dal fascino ancestrale. Gli Arkons sono un’idea gnostica del potere esercitato attraverso un dio imperfetto. Contaminano e offuscano l’umanità, mantenendola corrotta invece di lasciarle trovare un io armonioso. Mi sembra di vivere in un’epoca arconica; queste influenze negative stanno pesando estremamente su tutti noi. Ragionamenti che non fanno una piega da parte di una ex studente di Filosofia, al solito tutto fuorché solari ma appunto per ciò onesti e adeguati ai giorni correnti. La musicista americana di origini russe-tedesche-slovene-ucraine vola dai boschi di Okovi (“ceppo” in lingua slava) – boschi in realtà omaggiati persino qui, nella prima frase pronunciata nel primo verso della prima canzone, eh – verso una caverna della consapevolezza semi-platonica, dove liberarsi definitivamente da ogni eventuale catena.

C’è ormai un filo simbolico tra un capitolo e l’altro nella produzione di Zola Jesus. Il buon giudizio su Arkhon non è troppo distante da quello espresso nella nostra testa per Okovi: le intenzioni sono affini. Il sound nel frattempo si è fatto ancora più corposo e vario, con synth, piano, archi e ritmiche mai così dinamiche. Tra gli episodi migliori: il primo singolo “Lost”, ad alto tasso di pathos, con un video girato in Cappadocia, Turchia (Everyone I know is lost, l’allegro ritornello da canticchiare); gli anni Ottanta di ritorno nell’orecchiabilità in caduta di “The Fall”; i ponti tra Siouxsie & The Banshees e Warpaint di “Undertow”; gli echi industrial della risucchiante “Sewn”. Resta però nell’aria la sensazione che si spinga sin troppo sulla voce, in evidenza nelle sue potenzialità operistiche, e che le canzoni splendano più per la loro rifinitura, per i dettagli di arrangiamento e le deviazioni sottopelle (in risalto per esempio in “Efemra”), che non per l’ossatura di base (con le ballad, in particolare, vicine al precipizio dell’iper-zuccheratura a velo, anzi a pizzo nero). Anche questa in fondo è stregoneria – stregoneria apocalittica, per la precisione, per rifarsi al titolo del saggio di Peter Grey che ha rappresentato una delle fonti di ispirazione.