ZOFT, Electrically Haunted
Se si pensa al Belgio, si pensa sempre alla birra. Talvolta alla cioccolata.
Questa statarello però a volte riesce a sorprenderci sul piano musicale: in passato coi dEUS e oggi con gli Zoft, duo experimental formatosi nel 2008 e composto da Damien Magnette (batteria) e Nicholas Gitto (chitarra). Il loro debutto, Electrically Haunted, è un disco dall’atmosfera claustrofobica, (volutamente) irritante, isterica. I due ci sanno fare e ci vanno giù senza nessuna compiaciuta melodia, salvo qualche fugace squarcio di lirismo (i mugolii di “Exit”). Chitarre distorte dalle sonorità ruvide, sabbiose (in “L’Homme Machine” sembrano un trapano…); una batteria dal suono metallico, stizzoso e dall’incedere ossessivo, rutilante, frenetico. A dominare è il rumore: l’intermezzo “. . . . . . . . .” sembra un concerto per sega circolare.
Le varie membra delle canzoni non sono saldate, bensì giustapposte a formare stridenti dicotomie: “Coil”, ad esempio, inizia con schiamazzi festosi di bambini che finiscono per impastarsi con la sessione strumentale e la voce principale, per poi spegnersi sulla falsariga di com’era iniziata. Lo stesso avviene “Q.I. Cuit”, dove una filastrocca cantata da dei marmocchi fa da tappeto ai ripidi crescendo strumentali per sfociare dapprima in una serie di urla, poi in uno scroscio di applausi. L’album è al 75% strumentale e, salvo in “Tu M’Énerve Pas” (cover dei Vitas Guerulaitis, trio dada-punk francese trapiantato in Belgio), dove c’è un ricorso più disteso alla “parola”, persino la voce è trattata a mo’ di uno strumento, tanto da ricordarci un po’ Mike Patton nei Fantômas. Nel kit press si sottolinea l’impiego di strumenti home made e il fatto che si tratta di una registrazione casereccia a opera di Mehdi Ayari.
Per carità, nulla di inedito (specie dopo quanto fatto da Tom Waits in Bone Machine), ma ciò conferma un certo eclettismo, cioè una capacità di attingere da un genere all’altro: si passa infatti dalle allusioni post-rock di “Exit” all’atmosfera tetra e un po’ ambient che ci introduce a “Mike Tapping”, dalle compagini math di “Shramana” e di “Marque Blanche” fino alla vena industrial di “Hokkaido”. Un album consigliato agli amanti del genere.