ZOË MC PHERSON, Pitch Blender
Gli anni di pandemia hanno avuto l’involontario ruolo di motore artistico, contribuendo a regalarci una pletora di dischi che sono diretti eredi degli spettri del COVID che fu. La nuova fatica di Zoë Mc Pherson si incasella perfettamente in questa definizione, rigurgitando le ansie e i picchi emozionali di due anni complicati in un aracnide cibernetico dalla corazza cromata. L’artista di base a Berlino riesce a modulare con ingegno e frenesia una dialettica sonora che scatta e rallenta a piacimento, plasmando suoni che escono dalle casse con una secchezza tagliente, spigoli che irrompono con una resa che non si perde neanche mezzo secondo in convenevoli. Un disco che nasce per essere ascoltato in cuffia e respira per venire apprezzato con pienezza davanti a un muro di casse, come dovrebbe sempre essere nella grande liturgia dell’elettronica.
Il pregio maggiore di quest’album è il suo paesaggio sonoro, un lavoro di ingegnerizzazione francamente pazzesco, curato nei minimi dettagli e capace di partorire un output densissimo, un piccolo orgasmo acustico per i fan delle esperienze uditive complesse e avvolgenti. L’immersione nel disco di Zoë Mc Pherson è allo stesso tempo scomoda e piacevole, dipanandosi attraverso dieci tracce che sotterrano l’ascoltatore sotto metri cubi di materia digitale. “Pitch Blender” è club music per temerari, una surreale vertigine che avanza sospinta da un kick virulento che mantiene costante la tensione. Alcuni suoni ricordano l’innovativo stile di Sophie, ma decontestualizzato e reso così acido da perdere quella palette tanto amata dalla compianta artista inglese. Per il resto l’orizzonte si sposta tra breakbeat e IDM decostruita fino a vederne quasi il midollo, con il numero di BPM che aumenta e decelera di intensità con ritmo schizoide. Tracce come “The Spark” mettono a dura prova le coronarie di noi amanti della cassa dritta, al pari delle secchissime mitragliate IDM della clamorosa “Power Dynamics”. Il fulcro di Pitch Blender vibra maggiormente in pezzi come “On Fire” e “Wait”, due catene di montaggio dedite alla produzione di pulsazioni sbilenche e arrugginite, creatrici di cortocircuiti fulminanti. Da segnalare anche il perenne boom supersonico di “Lamella”, sia nella sua versione imbellettata dalla traccia vocale che nell’edit strumentale che chiude il disco. Ce n’è per tutti i gusti, in un lp completo ed estremamente voluttuoso. Il sipario cala con “Outside”, una chiosa ansiogena al limite dell’insostenibile, con texture digitali e pattern analogici che confluiscono nel docile cinguettio di un uccellino. La dicotomia perfetta per completare puntualmente un’esperienza sonora impeccabile.