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ZIPPO, Maktub

Il 13 aprile 2021 ricorre il decimo anniversario dell’uscita di Maktub, terzo full-length degli abruzzesi Zippo. La band da queste parti non necessita certo di presentazioni, ma è bene ricordare che si è sempre mossa con una certa disinvoltura tra uno stoner rock non troppo canonico, un po’ di psichedelia ed elementi marcatamente metal nel senso più ampio del termine, mettendoci sempre del suo e risultando, alla fine, non catalogabile in un genere o in un altro.

Maktub, il cui titolo si ispira a “L’Alchimista” di Paulo Coelho, è un viaggio sonoro tortuoso e complesso, che nel suo insieme sembra tracciare un confine tra il passato e il futuro: la band osa, sperimenta, fa un salto nel vuoto, sicura del proprio retroterra ma impaziente di andare oltre ciò che è: le parecchie derive “proggheggianti”, specie nella sezione ritmica, e le acrobazie vocali di Dave ne sono la prova, ma è nell’incastro perfetto e al contempo azzardato dei suoni che risiede la reale cifra innovativa dell’album. Devo ammettere di averci messo un po’ di tempo a capirlo: rispetto al precedente The Road To Knowledge, Maktub è barocco, intricato, l’ascoltatore si ritrova talvolta sopraffatto dalla non linearità delle composizioni e rischia di “perdere il filo”, ma perdersi e ritrovarsi non è forse il fine ultimo di ogni viaggio interiore? A costo di sembrare retorica, penso che in tal senso Maktub riesca nel suo intento, e il ruolo del frontman come cantore e voce narrante tiene le fila del discorso sia a livello puramente sensoriale grazie a una versatilità notevole (la voce, a tratti ruvida, a tratti sommessa, funge da “guida” nel percorso), sia nella declamazione dei testi, altro fiore all’occhiello di questo lavoro: profondi, riflessivi, poetici, mai però ridondanti.
La presenza di Ben Ward (Orange Goblin) come guest vocalist su “Man Of Theory” e di Luca T. Mai (Zu), sax su “Caravan To Your Destiny” e “Simum”, arricchiscono ulteriormente tutto l’insieme. Ho sempre considerato proprio ”Simum” il punto più alto dell’album: ipnotico ed evocativo, ricco di spunti arabeggianti ma anche genuinamente rock, risulta a suo modo accessibile anche grazie alla componente melodica, più marcata nella prima parte.

Maktub, dieci anni dopo, è un album che non ha nulla da nascondere e nulla da dimostrare perché parla da sé: ha cambiato un po’ di equilibri e oggi continua a farlo, non solo per chi segue la band da tempo, ma anche per chi, ignaro dell’esistenza di questi ragazzi, apprezza lo stoner rock, i suoi derivati e le sue contaminazioni.