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IN ZAIRE + MAI MAI MAI, 11/5/2017

Bologna, Locomotiv Club.

2017, Antropocene, l’atlante delle città perdute o sommerse nel mondo è sterminato, e un giorno tutte le smanie costruttive dell’uomo si riveleranno per quello che sono: vane. E allora anche stasera, come tante altre volte, assistiamo alla messa in scena del suono di un inizio, o di una fine, che spesso, in musica e non solo, coincidono. Non a caso Visions Of The Age To Come è il titolo del nuovo lavoro del quartetto In Zaire, fresco di stampa per Sound Of Cobra. Come sono i suoni delle epoche a venire? Per Mai Mai Mai, che apre il live, sono gelidi, ossessivi, scuri ed affilati: il suo è un set potente ed evocativo, durante il quale fanno capolino suggestioni africane subito sommerse da una coltre di nubi di Chernobyl, battiti robotici e di grana grossa che sfumano in ombre drone, mentre costanti rimangono la paura, la percezione di una minaccia incombente e la sensazione che la fuga sia necessaria allo stesso tempo impossibile. Rosari di basslines da sgranare mentre si muove la testa come in un set techno e si sente odore di fine, distopia e paranoia. Imponenti cattedrali di beats, un rito voodoo in una stazione orbitante abbandonata, chirurgia e apocalisse, bollori e folate artiche, alfabeti runici e lingue aliene: bravissimo.

In Zaire (per inciso, complimenti per la scelta del nome…) cominciano con interferenze e disturbi come da una radio, micro-suoni che inciampano su loro stessi a creare loop evocativi, due tamburi a portarci in Africa, poi la batteria a mettere le cose in chiaro fin da subito: pulsazione costantemente in 4/4, i sibili e le sillabe di noise sottile di Claudio Rocchetti (che però tendono a perdersi nel magma quando il motore degli altri gira a pieno volume), un basso in perfetto stile space-rock e su tutto, a far brillare la bomba, la chitarra multiforme del bravissimo Stefano Pilia, oramai un musicista davvero completo e maturo. La prima parte del concerto è molto coinvolgente: attraversiamo terre lussureggianti, giungle elettriche, vulcani che eruttano lava Hawkwind, afrori da cyber-funk, radure dub dove scorrazzano animali imbizzarriti. Un clima torrido inonda la sala e in tanti muoviamo di nuovo la testa, rapiti. Sulla lunga distanza forse un minimo di ripetitività affiora, ma sono peccati veniali, anche perché ad un certo punto arriva il pezzo che non fa prigionieri: la chincaglieria lo-fi che incespica in un loop magico, la chitarra ancora una volta a spalancare le porte, la sezione ritmica accende i reattori, e si parte di nuovo. Incisivi e decisi, gli In Zaire hanno trovato un suono mesmerico e cangiante, felicemente in bilico tra enfasi rock e deliquio psichedelico, tra tribalismo e motorik. Mai (mai mai) siamo stati in Zaire, ma l’energia che circolava stasera era simile a quella che presumibilmente circolava la sera dell’incontro tra Foreman e l’uomo che prima si chiamava Cassius Clay: pubblico in trance, corpi a muoversi scandendo il ritmo mentre i musicisti si sfidano a colpi di montanti. Dance like a butterfly, hit like a bee, avvertiva il pugile di Louisville, e i quattro musicisti – puntuale e tosta la sezione ritmica con Riccardo Biondetti alla batteria e Alessandro De Zan al basso ed alla voce – si sono dimostrati muscolari ed in un qualche modo raffinati, selvatici e futuristici, ispidi e cosmici, moderni e primitivi. Grande serata, grande accoppiata. Ali Bomaye…