YUYA OTA, Arctic April Mother
Nulla si sa del giapponese Yuya Ota, se non le poche notizie che Glacial Movements ha messo in giro. La più importante, anche sentendo il disco, si direbbe quella riguardo la sua collaborazione con Keith Rowe. Se la memoria non m’inganna, è la prima volta che in un album uscito per l’etichetta romana il suono del piano è così a nudo, senza mascheramenti elettronici di sorta, tanto che all’inizio viene il dubbio di aver preso qualcosa di Goldmund o Tiago Sousa. C’è subito un frangente eccezionale, dopo un primo smarrimento dovuto a queste note sparse, ed è quando si passa alla seconda traccia, più tradizionalmente ambient, che schiude un mondo attraverso l’estensione all’infinito di una manciata di suoni. Questa sensazione di stupore e meraviglia, alla quale si aggiunge la malinconia del principe degli strumenti, marchia tutto questo disco. Lo stesso discorso, infatti, vale anche quando – tipo il Fennesz di Black Sea – Yuya integra il sound anche con accenni cristallini di chitarra acustica. Le soluzioni adottate, di per se stesse, non sorprenderanno nessuno e probabilmente un neofita di questo genere se lo immagina proprio come lo propone Yuya Ota. Però funziona tutto piuttosto bene qui.