YONATAN GAT, Universalists
Genova, Bali, Maiorca, New York, il Rhode Island, il Medio Oriente, Antonín Dvořák. Porti e menti aperte, in tempi di spappolamento di ogni genere musicale ma anche di oscurantismo salviniano. Cominciamo molto bene se pensiamo ai riferimenti geografici di cui è zeppo questo Universalists di Yonatan Gat (già chitarrista degli israeliani Monotonix, famosi per i loro live pazzi), da qualche anno trasferitosi nella Grande Mela e che si presenta qui con la classica formazione in trio elettrico, arricchita da un uso intelligente, profondo e puntuale dell’elettronica e dei samples.
Una mappa composita, un atlante elettroacustico che ci fa da guida in un viaggio pieno di sorprese: la traccia di apertura, “Cue The Machines”, inizia con una registrazione sul campo di Alan Lomax di un coro di Trallallero a Genova, negli anni Cinquanta; il coro poi si incarta e si traveste da glitch sul quale si innestano talee jazz vagamente esotiche e un approccio noise che lo rende semplicemente irresistibile come un incontro tra Arthur Lyman e gli Us Maple, davvero bellissimo e inaudito. Un altro termine di paragone spendibile potrebbero essere i misconosciuti e sottovalutati Za! dalla Catalunya, un duo capace di far fuoco e fiamme. Come fuoco e fiamme fa questo disco ispirato e sfrontato, etnico ma non didascalico, psichedelico e psichico, pre e post, visionario e a fuoco al tempo stesso.
“Post-World” fruga tra i cassetti dalla tradizione dei canti di lavoro di Maiorca e trova una fotografia sbiadita e magnetica, che viene trasformata in una ballata enigmatica ed affascinante, una melodia antica a cui viene tolta tutta la polvere e che ora risplende nella sua pura bellezza.
“Fading Casino” è un incrocio tra i Mercury Rev, Zappa (qualcosa di più di un nume tutelare per questo musicista, a occhio) e i Battles (soprattutto per il suono), frullati in un centrifugato pop stupefatto e stupefacente: una canzone per l’estate, come dei Beach Boys sfatti e sotto l’effetto di qualche indefinibile sostanza che non dà spiacevoli effetti collaterali.
“Cockfight” è una botta in your face, tra gamelan, punk selvatico, e roots, con un caos percussivo che fa venire in mente gli Hella oppure dei Cramps che hanno imparato a oltrepassare i soliti tre accordi. Gran pezzo.
“Medicine” è una jam con il gruppo di percussioni Eastern Medicine Singers, del Rhode Island, che si apre con un tripudio corale che sa dell’Africa rivisitata dai 75 Dollar Bill ( autori di un disco memorabile uscito pure su Tak:Til) e poi si eleva in un’estasi herzogiana da grandi orizzonti, tra cielo e radici.
“Projections” è fedele al titolo, e sono ombre eliocentriche proiettate in una stanza con un grammofono, frammenti di mondi diversi che combaciano in maniera naturale in questo puzzle cubista eppure privo di spigoli respingenti. “Sightseer”, invece, è un incrocio tra i Calexico e i Sun City Girls, un mezzogiorno di fuoco sotto un sole che dà visioni e vertigini, con una voce a fare capolino.
“Dream Sequence” è una colazione di funghi magici a picco sul mare, tra Tortoise e Mahavishnu Orchestra, ma sottovoce, con un giro di basso magnifico e suoni che avvolgono, rapiscono e colpiscono. Chronology, forse il climax di tutto il lavoro, inizia in una Turchia psichedelica e ’70 per poi planare dalle parti dei Laddio Bolocko o ancor meglio degli Psychic Paramount, per una jam mozzafiato, intensa e affilata (sempre ottimo il lavoro del batterista, imprendibile e molto naturale, rock eppure sempre creativo).
Finito il sabba, si spalanca davanti alle nostre orecchie la nuda meraviglia di un sample preso da un’antica canzone contadina spagnola che sfocia poi in un passaggio tratto dall’American Quartet di Antonín Dvořák del 1893, arrangiato qui per piano elettrico e chitarra elettrica. Questi sei abbondanti, strabilianti (era da un po’ che non sentivo qualcosa che mi lasciasse così sorpreso) minuti terminano poi nella gloria e nel caos di registrazioni diverse mescolate come avrebbe potuto fare David Shea ai tempi belli dei suoi dischi su Tzadik: un pezzo che contiene letteralmente universi e che nel finale, tra efferatezze Lightning Bolt e compulsioni giapponesi (la follia psichedelica di certi Boredoms non è così lontana) seppellisce le voci remote di un mondo che non c’è più. Una sinfonia in meno di sette minuti e per di più suonata da un trio elettrico, e scusate se è poco.
Chiude in modo enigmatico e sornione “The Imaginary”, un lounge anfetaminico e sfasato che suona come un incontro tra un Bill Frisell sbronzo e Uwe Schmidt nelle vesti del Señor Coconut, quello del Baile Aleman.
Non credo di aver mai fatto così tanti riferimenti specifici in una recensione ad altri musicisti ed altri gruppi, ma questo disco è davvero personale e per certi versi inaudito, e andava dunque raccontato nel dettaglio. Si conferma dunque il grandissimo fiuto della Tak:til, all’ennesimo centro. Sarebbe bellissimo vedere Yonatan Gat dal vivo. Come con i Širom, non mi (ci) resta altro da fare ora che spargere la voce, e far circolare il più possibile questa perla.