YAKUZA, Sutra
Quando sento la parola “yakuza” mi salta sempre in mente la smorfia che punteggia il volto scavato di Takeshi Kitano, che con il suo sguardo spietato ha interpretato tutto lo spettro della malavita giapponese in film indimenticabili. Quella commistione classica tra sangue che scorre a fiumi e bromance tra commilitoni che mi ha sempre fatto volare. Il corrispettivo musicale di questo termine invece non mi ha mai creato gli stessi flash, rimanendo sempre ai bordi della mia mente in tutti questi anni. All’ottavo disco gli Yakuza finalmente trovato l’occasione per intrufolarsi effettivamente nel mio campo sonoro con questo Sutra, che arriva addirittura a 9 anni di distanza dalla loro ultima fatica. Un vuoto temporale che suddivide in maniera netta la loro storia, con i primi lavori che paiono essere le prestazioni più apprezzate dai fan, perché capaci di elaborare un sound dove flirtano prog metal e jazz schizofrenico.
Anni dopo la ricetta è sempre la stessa. Questo ritorno sulle scene, però, risulta fin da subito alquanto insipido, vibrando nelle cuffie quasi come un demo del vero disco. I suoni non si amalgamano mai totalmente, e come olio in un bicchiere d’acqua continuano a galleggiare sospesi in una stratificazione fin troppo delineata. Nel complesso il disco appare un po’ vecchiotto, accusando il colpo dei nove anni di stop. Tutto già sentito, tutto sospeso senza un’effettiva linea condivisa. Il primo trittico dà l’evidenza più lampante di questo trend, con riff drittoni che ammiccano al repertorio degli ultimi Gojira (un pezzo su tutti: “Alice”) senza avere però quella verve monolitica necessaria a lasciare il segno. Quello che si nota maggiormente è la poca profondità nel mixaggio: potrebbe essere uno di quei soliti onanismi da tecnici, ma qui la cosa ha un impatto primario. Subito dopo l’incursione del sax del leader Bruce Lamont nella crepuscolare “Capricorn Rising”, “Embers” rallenta il ritmo e fa intravedere qualche spiraglio di vita. Ad emergere sulla lunga distanza, pero, è la prova sotto le aspettative della voce, stonata e in apparenza fuori luogo rispetto al resto della strumentazione, con gli inserti screamo delle prime uscite oramai scomparsi. In generale c’è sempre quel senso di lieve scomodità nell’aria che non permette di godere a pieno delle trame sonore degli Yakuza, troppo poco avvezzi all’osare per stupire veramente, e fin troppo classici per scompigliare le carte in tavola.
La seconda metà cerca di far dimenticare l’inizio horror, con le cavalcate di “Burn Before Reading” e “Into Forever” a rianimare la situazione, ma alla fine dei 53 minuti abbondanti di durata resta la sensazione di un album poco incisivo. E Sutra se ne va com’è arrivato, sfumando in lontananza come un fuoco di paglia.