Xylouris White: la reinvenzione della tradizione
Giorgos/George Xylouris, nato nel 1965, suona il laouto, che viene descritto come una specie di oud o – più facilmente – come un liuto dal collo più lungo. Suo padre e i suoi zii sono la storia musicale di Creta e della Grecia, mentre i suoi figli suonano con lui nello Xylouris Ensemble, che ha/aveva base a Melbourne. Per quanto posso leggere, negli anni Novanta con parte della famiglia si trasferisce in Australia (rimanendoci otto anni), in una città dove sono emigrati moltissimi suoi connazionali (Melbourne is home to one of the largest Greek diaspora communities in the world as well as being the city with the largest Greek-speaking population outside Greece, dice Wikipedia) e dove tra l’altro è cresciuto un altro greco che farò tornare in questa storia: Anthony Pateras. Lì comincia ad annusarsi con Jim White, batterista dei notissimi Dirty Three, che a sua volta ha una mezza passione per il folk greco, pare proprio per alcuni dischi del celebre padre di Giorgos, Antonis (detto Psarantonis). Dirty Three vuol dire anche Warren Ellis, dunque basta tirare ancora una linea di congiunzione per arrivare a Nick Cave, che nel 2009 cura l’ATP Festival grazie al quale i due protagonisti di questo pezzo si rivedono e gettano le basi della loro collaborazione, che finalmente sfocia in Goats, pubblicato nel 2014. L’album, fra le altre cose, contiene due brani appartenenti alla tradizione cretese, ma la coppia – per quanto sembri abitare in un altro mondo e in una possibile Antichità – sfugge alle gabbie di genere e pure a quelle geografiche, del resto parliamo di artisti con decenni di esperienza, che hanno lavorato con chiunque e in qualunque contesto.
Quando li raggiungo via mail tramite il loro booking agent, chiedo loro perché stanno insieme, se si tratti di amicizia, divertimento o di un’alchimia speciale nel momento in cui suonano sullo stesso palco, e rispondono semplicemente “tutte queste cose. Ha molto a che fare con l’alchimia, se la vuoi chiamare così. Due corpi e un cervello… metà a testa, come dice Jim”. Goats, forse in modo inaspettato, diventa numero 1 nella classifica di Billboard, categoria “world music”. La definizione di “world music” è molto controversa, soggetta a cambiamenti nel tempo. Una volta avrei pensato ai cestoni di cd degli Autogrill, oggi mi trovo di fronte a etichette come Glitterbeat e mi pongo un sacco di domande, anche sul concetto di “tradizione”. Qui mi torna in mente Pateras, che a suo tempo mi ha spiegato che l’Australia non sente il peso di una storia culturale, per questo c’è più facilità nella reciproca impollinazione tra musicisti con background diversi: non c’è tradizione, quindi tutti sono liberi. Chiedo se è davvero così ma secondo me soprattutto Xylouris non la prende bene: “Puoi essere libero all’interno di una cultura, può succedere ovunque. Come il metro in un brano musicale ti dà la libertà e non ti ingabbia, anche la tradizione ti dà la libertà. L’ispirazione è qualcosa di diverso. Quella frase che dice che siccome non c’è tradizione, allora ognuno è libero, non ha senso per noi in alcun modo. George, che è greco e non australiano, ha una ricca tradizione familiare che consiste nello stare dentro la propria cultura, ma espandendola. Jim è di Melbourne, per cui molti dei suoi amici erano greci ed italiani, le cui famiglie per la maggior parte erano arrivate lì tra gli anni Cinquanta e Settanta; i loro genitori conservavano la loro cultura originaria. Il contatto con la musica greca per Jim alla fine è avvenuto grazie alla presenza in Australia di George e suo padre, e inoltre ha conosciuto lo Xylouris Ensemble, che era una collaborazione tra George e una famiglia irlandese-australiana, e di sicuro qui c’è stata un’impollinazione incrociata tra le culture greca e irlandese-australiana. Tutto questo ha ispirato artisti più giovani come Paddy Montgomery e i figli dei musicisti parte dello Xylouris Ensemble”.
A proposito di emigrati italiani, tutti e tre gli album di Xylouris White sono stati prodotti da Guy Picciotto, tanto per dare un’idea della trasversalità di questi suoni: il secondo (Black Peak), in cui il cretese sfoggia molto di più la sua voce e l’australiano a momenti fa sentire tutta la sua forza propulsiva, è stato registrato in varie parti del mondo, dicono, dato che questi signori suonano moltissimo dal vivo, e se non li vedi in quel contesto lì, probabilmente non li capisci, perché non ti accorgi di quanto siano intensi e per certi versi semplici, non ti rendi conto di come sia spoglio il loro assetto e di come riescano ad adattarsi a qualunque locale e condizione: “Amiamo suonare i nostri strumenti. Ci sentiamo liberi da limitazioni e lo stesso vale per i posti dove ci esibiamo, ci piace confrontarci con il loro suono naturale e con le differenze che ci possono essere tra sale diverse”. Per questo chi può dovrebbe andare a vederli tra giovedì, venerdì e sabato (Trieste, Schio e Roma), forti tra l’altro di un terzo album (Mother, 2018), continuazione e sviluppo dei primi due, un misto di passato e presente che permette di scoprire similitudini delle quali non ci eravamo mai accorti e fa sì che qualcuno definisca “kraut” un pezzo come “Only Love”.