WOVEN HAND, The Laughing Stalk

The Laughing Stalk

È tornato. Non che si sia fatto attendere più di tanto, eh, ma è proprio bello esclamare «è tornato!» quando si parla di lui. Uno che se lo incontri per strada, magari immerso nell’oscurità, può incutere a momenti un leggero timore. Poi scopri che probabilmente ha più bibbie in casa lui di un qualsiasi Don Luciano di tua conoscenza, e allora ti tranquillizzi un attimo. Poi ancora arriva il tuo amico che la sa lunga su tutto, ti consiglia i 16 Horsepower e ti ritrovi ad ascoltare uno dei migliori gruppi degli anni Novanta, per non dire uno dei più singolari che siano mai transitati nel meraviglioso mondo della Musica Rock. In poche parole: Hank Williams e Johnny Cash (e tanta altra roba traditional a stelle e strisce) fagocitati da Jeffrey Lee Pierce e conditi da molteplici ingredienti di derivazione post-punk o new wave. Purtroppo, anche le cose bellissime hanno una fine, perché i 16 Horsepower si sono sciolti. L’uomo in questione, David Eugene Edwards, non ha però appeso la chitarra al chiodo, ripartendo più o meno nell’immediato con i Woven Hand, un’avventura che discograficamente parlando comincia dieci anni fa esatti. E con cadenza piuttosto regolare, il cantautore – o meglio il Cantore – di Denver ci regala sapidissime perle: dischi che in qualche modo proseguono un discorso cominciato con gli Horsepower, ma che di questi non ripropongono la formula in maniera pedissequa. Negli ultimi tempi, anche alla luce del magistrale The Threshingfloor di due anni fa (ma le cose cambiano se si parla dell’altrettanto riuscito “Ten Stones”), sembrava che Edwards ci stesse dicendo «ragazzi miei, mi sa che sto un po’ invecchiando, c’ho un po’ di figlioli da guardare e pure da dire il rosario… suono pure da seduto, fate voi». Le sonorità spesse volte viravano verso qualcosa di decisamente più pastorale e in un certo qual modo polveroso, privilegiando timbriche acustiche. A rimanere invariato, era il valore: cosa che non cambia neanche in The Laughing Stalk (titolo altisonante e abbastanza geniale, direi), che però, guarda un po’, è il disco più elettrico mai inciso da questo brutto ceffo con la sigla Woven Hand. E forse, ma lo dico sottovoce, è anche quello migliore. Questo, però, è un pensiero che mi giunge in testa a ogni nuova uscita firmata da Edwards da tipo cinque anni a questa parte. Il fatto è che l’ultimo album della sua band è quello dove la presenza delle trame post-punk si sente in modo davvero potente: non si ode un banjo che sia uno, pochissimi sono i suoni non distorti, le ritmiche sono incalzanti e le chitarre taglienti. Lo spettro dei tanto adorati Gun Club si aggira imperterrito per questo disco, a cominciare dalla fulminante apertura di “Long Horn”, coinvolgendo poi le restanti otto canzoni: dalle atmosfere evocative della title-track, la più vicina al suono 16 Horsepower, passando per l’affascinante epos di “In The Temple” e per l’apocalittica “King O King”. Nell’area più wave/post-punk, troviamo la rimbombante “Closer”, seguita dai dilatati tribalismi di “Maize”. “Coup Strick” vibra di esplosioni elettriche, mentre “As Wool” tinge il tutto di punk rock dai crismi country: qualcuno aveva forse detto Gun Club? Conclude l’ennesimo eccellente lavoro dei Woven Hand la roboante, prepotentemente oscura “Glistening Black”. Un disco, questo, che non può non piacere a chi ha sempre amato David Eugene Edwards e tutto il suo immaginario, la sua inconfondibile voce carica di sensuale spiritualità, i suoi versi biblici, la sua capacità di scrittura che da tempo l’ha catapultato tra i grandissimi d’ogni tempo. E poi, la sua formula musicale, il suo marchio di fabbrica, con la quale, ormai, può far proprio ciò che vuole. Di nuovo: chapeau!

Tracklist

01. Long Horn
02. The Laughing Stalk
03. In The Temple
04. King O King
05. Closer
06. Maize
07. Coup Stick
08. As Wool
09. Glistening Black