WOLF EYES, 19/5/2012
Vittorio Veneto, Codalunga.
Tre date italiane consecutive per i Wolf Eyes (& side projects), tutte a Vittorio Veneto nell’ambito del festival Three Days Of Struggle, che da qualche tempo chiama qui dall’estero un bel po’ di progetti ambient, noise, avant-rock e sperimentali e al contempo dà spazio anche a quelli delle nostre parti (alcuni di questi dello stesso spessore dei nomi più famosi). Negli anni si sono visti: Z’EV, Carlos Giffoni, Shit & Shine, Ghédalia Tazartès, John Duncan…
Per semplici ragioni di tempo a disposizione, dei tre giorni di lotta scelgo il sabato. Anzitutto, presso la Chiesa di S. Lorenzo dei Battuti è possibile vedere Carlos Casas, artista visivo ben conosciuto dal pubblico del festival, anche perché ha collaborato negli anni con tutta una serie di figure che ruotano intorno alla galassia noise (per esempio Prurient). Ci si sposta poi al Codalunga, dove è la volta del progetto “Regression” di Nate Young, la voce – per intenderci – dei Wolf Eyes. Di Regression possiedo il primo disco, uscito qualche anno fa per iDEAL, e le atmosfere sono quelle: dilatate, post-sbronza, con qualche sbalzo di aggressività. Solo i loop pigri ma ribollenti che si sentivano su stereo sono più radi. Un inizio assolutamente valido.
Si cena. L’atmosfera del festival è quella di una festa in relax tra amici, non esistono tempistiche strette da rispettare, il che rende più comodo tutto per chi sa poi anche aver pazienza. Finito di mangiare, ci si sposta su di un nuovo set: un capannone della zona industriale di Vittorio Veneto. Il primo a esibirsi è Dracula Lewis, un nome che gira parecchio sulle riviste specializzate ma che appare del tutto impalpabile.
Tocca poi ai Ninos Du Brasil, special guest Nico Vascellari. Un “addetto alle macchine” più Nico e l’altro nino alle percussioni: ci sono la festa, l’istintività, l’importanza della performance e la musica che in Italia si sentiva in discoteca subito prima che partisse brigittebardòbardò.
I Wolf Eyes si presentano con un look assassino: abbastanza H&M Nate Young, ma John Olson con la longsleeve degli Slayer e la cintura giamaicana e Mike Connelly con la t-shirt dei Blind Guardian sono spettacolosi (del resto il giorno prima suonavano pure gli Inquisition). Nonostante sembrino buffissimi, è gente davvero larghissima, con cui non litigheremmo mai. Sul palco mostrano i due volti – entrambi sfregiati – del loro sound: ambient/noise desolato e rugginoso, reso diversamente inquietante dal sax soprano di Olson, e noise rock portato all’estremo. Per quest’ultima “modalità” sembrano prendere le mosse dall’ultimo Always Wrong (2009). La base è costituita da loop che svolgono una specie di funzione ritmica: occorre immaginare una qualche creatura enorme che ad ampi e inquietanti intervalli tira dei pugni fortissimi contro il cancello d’acciaio del capannone. Su questo tappeto ritmico – unito a un’effettistica che è come il digrignare di un miliardo di denti – appoggiano le parti più esplosive, che si muovono in mille direzioni come i tentacoli della Cosa di Carpenter, con Young che tutto sommato ne imita anche le grida inumane, pur essendo coperto dal frastuono di tutto il resto. Connelly, chitarra alla mano, nella gestualità sembra Jack Black in School Of Rock, non si sa quanto ironicamente, ma costruisce un muro di suono perfetto. Olson è immobile e fa molta più paura, Young si muove sfatto come ce lo immaginavamo. I tre, nel corso della loro esibizione, riescono a trasmettere lo stesso senso di deformità e disagio comunicato coi loro dischi, con l’aggiunta dell’impatto devastante che possono ottenere nel capannone del Three Days.
Soldi spesi bene, insomma. Abbandono il festival per mettermi poi nelle statali vuote di Vittorio, mentre qualcuno ha appena fatto partire un remix spettrale di “I Feel Love” di Donna Summer, morta da pochi giorni: la cosa più terrificante della serata.
(grazie di cuore a Mr Bedroom per le foto)