Windhand: essere te stesso è tutto ciò che puoi fare
I Windhand (Richmond, Virginia) stanno per iniziare un nuovo tour europeo. Nemmeno questa volta ci sono date italiane, ma c’è quella al Mostovna di Nova Gorica di domenica 4 agosto, trenta secondi dopo il confine italo-sloveno: organizza East Edge Collective, di cui faccio parte. Se li intervisto, è ovviamente per spingere questa data, ma attenzione: sono i Windhand, non hanno bisogno di me, e io comunque non guadagno nulla, se non la possibilità di fare il punto sulla situazione del gruppo dopo cinque anni che non ne parliamo, nonostante recensiamo cento dischi doom al mese.
I Windhand nascono già adulti, come Atena dalla testa di Zeus. Forse – scrivendo la loro storia nel 2019 – quasi adulti: basta sentire il loro demo del 2010, che contiene “Black Candles” e “Winter Sun”, destinate a riapparire sul loro self titled del 2012, pubblicato da Forcefield. Magari non sono l’innovazione fatta band, ma sanno già bene come ottenere ciò che vogliono: i riff di Garrett Morris hanno una precisa fisionomia, così come la voce di Dorthia Cottrell. Si accorge di loro Relapse, che al tempo considera il sound dei cinque come un mix di “classicismi” sabbathiani e psichedelia tossica à la Electric Wizard, reso ancora migliore da Dorthia, lontana e suadente. Per questo l’etichetta americana nel 2013 pubblica sia un loro split coi Cough (Parker Chandler, da questo momento, suona il basso in entrambe i gruppi), sia Soma, che contiene il singolo “Orchard”, probabilmente il loro brano più famoso, e che riceve persino troppi elogi, ma che del resto è un disco perfetto per un momento in cui certi tipi di doom mettono d’accordo tutti, e alludo anche a quello con cantante-strega-sacerdotessa, un cliché dal quale Cottrell si libera presto con grande intelligenza. Si accorge di loro anche Walter Hoeijmakers del Roadburn, che li chiama all’edizione del 2014 del suo festival, dato che – ancora prima di ascoltare Soma – considera il loro debutto come il miglior album psych/doom del 2012: in Olanda sono così convincenti che a settembre 2014 esce in mille copie Live At Roadburn, come logico per Roadburn Records.
A marzo 2015 Relapse annuncia che la band è entrata in studio con Jack Endino a Seattle. I Windhand – come s’intuisce realtà già affermata nella propria scena d’appartenenza – provano a maturare ulteriormente, a progredire conservando. Non si scelgono quel produttore per caso: Dorthia sta meno dietro nel mix e cambia in parte il suo stile, illuminando da un’angolazione differente il sound del gruppo, sul quale ora si vedono le tracce lasciate da Alice In Chains e Soundgarden, e qualcuno se ne rende conto subito, non appena in Rete esce il primo audio tratto da Grief’s Infernal Flower, che per inciso è “Two Urns”, e non dimentichiamo un brano come “Crypt Key”. Tutto sembra avere un prezzo, dato che l’altro chitarrista, Asechiah Bogdan (ex Alabama Thunderpussy, tra l’altro) molla. Qualcuno di loro, poi, perde purtroppo anche un familiare, proprio mentre nasce il primo figlio di Morris. Nel 2018 esce uno split coi Satan’s Satyrs, primo esito della formazione a quattro, poi tocca a Eternal Return, prodotto sempre da Jack Endino. Quando si ascolta “Grey Garden” si capisce al volo come i Windhand abbiano trovato le corrispondenze segrete tra grunge, doom e psichedelia (o come le abbiano ri-trovate, tanto per non fare torto a qualche gigante dei Novanta). L’assenza di un secondo chitarrista li ha resi ancora più diretti, più vicini alla forma canzone e di conseguenza ha responsabilizzato di più Dorthia, che è stata così gentile da rispondere alle mie domande.
Avete già fatto un tour europeo nel 2019, conquistando cinque capitali (Vienna, Parigi, Londra, Bruxelles, Berlino). Ve lo aspettavate dieci anni fa oppure anche un po’ dopo, quando avete firmato per Relapse?
Dorthia Cottrell (voce): Non penso che quando abbiamo firmato per Relapse avessimo precise aspettative, eravamo solo felici che la gente volesse sentire ciò che facevamo. Per noi la musica è sempre venuta prima di qualsiasi altra cosa, ma l’essere stati in grado di girare il mondo, e l’aver avuto l’opportunità di suonare in così tanti posti diversi, è molto più di quanto noi avremmo mai potuto sperare.
Nel corso degli Anni Zero molte band pesanti hanno evitato la tradizionale forma canzone (a volte hanno evitato proprio qualsiasi struttura), spesso però non sapendo scrivere una canzone. Eternal Return dimostra che voi sapete farlo: per qualcuno questo è una boccata d’aria fresca. Chi sono i vostri autori di canzoni preferiti? Valgono anche quelli non metal.
Ascoltiamo tutti così tanti generi diversi di musica che diventa una domanda difficile, ma per quanto mi riguarda devo dire che Leonard Cohen, Townes Van Zandt, Terry Reid e Billy Joe Shaver sono i primi che mi vengono in mente. E ovviamente il mio amore giovanile per Alice In Chains, Soundgarden e Acid Bath è ancora forte. Per quanto riguarda le band più pesanti, penso che sia fantastico ciò che fanno gli Inter Arma. Sono nostri amici, quindi forse sono di parte, ma sono davvero molto creativi e difficili da descrivere… e ogni volta che li vedo, rimango sconvolta da quanto le loro canzoni siano dinamiche e coinvolgenti.
La vostra musica ha una forte identità: i riff si riconoscono immediatamente, idem la voce. Siete cresciuti, siete cambiati, ma siete sempre i Windhand. Non siete – lasciatemi semplificare – i Radiohead, perché non sembrate cercare trasformazioni radicali di disco in disco. Temete i cliché o siete preoccupati di ripetervi quando componete?
Penso che uno possa fissarsi troppo col far suonare la propria musica in un certo modo oppure impelagarsi troppo nel cercare un’evoluzione del suo sound rispetto a prima. Ti manda fuori di testa e ti fa vivere il comporre come un lavoro o un compito per casa. Quando all’inizio ho provato a scrivere le mie canzoni era divertente e facile, perché tutte quelle cose non contavano e stavo facendo tutto per me stessa. Credo sia importante suonare pezzi che ti piacciono e che ti rispecchino anziché preoccuparsi di aspettative e opinioni esterne.
Sono sul serio innamorato di “Grey Garden”. È il primo brano di Eternal Return che avete permesso di ascoltare e secondo me ha assolutamente senso. Però vorrei sapere perché voi lo avete scelto come “singolo” per stuzzicare il pubblico. La gente lo chiede ai live? L’ultima volta che vi ho visti dal vivo è stata nel 2014, al Roadburn: qual è stata la reazione dei fan al materiale uscito dopo quell’anno?
Onestamente non ricordo con esattezza perché sia stata scelta come prima canzone, penso che lo abbia suggerito la Relapse. È un po’ differente da ciò per cui – immagino – eravamo conosciuti, suona più vulnerabile. Ricordo che mi chiedevo come sarebbe stata accolta, ma alla fine penso fosse una buona rappresentazione di tutti i diversi elementi dell’album. Mi innervosisco a cantarla dal vivo perché la mia voce in questo caso è molto in evidenza e se faccio un errore, so che sarà palese subito, ma la gente sembra apprezzarla e la chiede.
Per quanto riguarda le reazioni delle persone a ciò che facciamo dal 2014, è difficile da dire perché cerco di non leggere recensioni o commenti, ma gli show sono stati buoni e noi tentiamo sempre di suonare meglio dell’ultima volta, spero che questo si veda.
C’è il Grunge nel vostro sound. Ero teenager nei Novanta e alcune band grunge sono importanti per me: sono cresciuto con loro. Per questo Eternal Return ha fatto subito colpo su di me. Vi va di nominare qualche vostro disco preferito dell’era grunge?
Dirt degli Alice In Chains, Louder Than Love e Badmotorfinger dei Soundgarden, Where You Been dei Dinosaur Jr., Bleach dei Nirvana… Sono sicura che se avessero risposto tutti i Windhand a questa domanda, la lista sarebbe stata molto lunga…
Resto allacciato alla domanda precedente: quale è la più grande lezione che avete imparato da Jack Endino?
… che bisogna fare una cosa di nuovo, meglio. E che non dovrei usare padelle antiaderenti… Seriamente, c’è troppo da dire su di lui, è davvero uno scienziato pazzo, un genio e un mago. Se lo conosci, sai già tutto.
Come avrete già capito, sono fan dei Windhand e mi piacciono sul serio le novità nel vostro sound. Però sono forse l’unica persona sulla Terra che non va matto per Arik Roper. In che modo i suoi disegni e la vostra musica si sposano?
Dunque, volevamo qualcosa che non somigliasse alla classica copertina metal, ma anche qualcosa che rappresentasse il modo in cui la musica suonava secondo noi. Entrambe le copertine che Arik ha realizzato per noi sono piene di colori esplosivi, è tutto stravagante, quasi come si trattasse di un libro per bambini, però se le osservi da vicino, vedi che i soggetti sono davvero molto cupi. La cover di Grief’s Infernal Flower è meravigliosa e ricorda un giardino, ma si basa su di un cimitero dimenticato della Guerra Civile qui a Richmond, ricoperto ormai di vegetazione, dove le ossa letteralmente escono dal terreno e ci sono questi corpi senza nome, queste vite che per incuria ora sono perse nel tempo. La cover di Eternal Return è simile, perché sembra quella di una fiaba ma è centrata su quel piccolo pezzo di oscurità che si insinua e probabilmente si impadronirà di tutto, perché è la realtà dietro a tutto. Penso che Arik abbia fatto un gran lavoro nel tradurre questa nostra idea in arte.
Il 4 agosto vi rivedo suonare. A guardare internet e i suoi numeri, c’è una canzone che non può star fuori da un vostro set: “Orchard”. È vero? La considerate un po’ la vostra “Highway To Hell” / “Ace Of Spades” / “Paranoid”? Avete una canzone finale preferita per chiudere i vostri show? Oppure per aprirli?
“Orchard” è il pezzo più suonato dal vivo, è vero. Penso sia semplicemente una canzone che ci piace e con la quale siamo tutti a nostro agio, è divertente da eseguire, facile abbastanza anche da ubriachi se succede accidentalmente, e in più la gente la chiede. La mia canzone preferita con cui chiudere è “Cassock” e mi piace aprire con “Old Evil”, perché sono sicura nel farla, è difficile rovinarla vocalmente ed è un buon modo per riscaldarsi per il resto del set.