WILLIAM BASINSKI, On Time Out Of Time

WILLIAM BASINSKI, On Time Out Of Time

It’s called Disintegration Loops, arguably
the most important ambient work of our generation,
I’ll send you a link to the 6 LP box set”

Quello virgolettato è il testo di un meme, provo a descriverlo: ambientato in un club, o ad un concerto, un ragazzo parla ad alta voce -ci devono essere molti decibel nell’aria- all’orecchio di una ragazza, cercando di darsi un tono e attirare l’attenzione di questa magnificando il lavoro più celebre di William Basinski. Lo sguardo della tipa è perso nel vuoto, a metà strada fra l’indifferenza e il disprezzo. Se da una parte il meme offre una formidabile caricatura del cultore di musiche altre (il fatto che mi sia rimasto così impresso molto probabilmente chiama in causa un meccanismo di immedesimazione), dall’altra getta una luce impietosa sulla figura del musicista texano, percepito da molti come autore di polpettoni indigesti, il cui ascolto è ritenuto passaggio obbligato sulla via dello snobismo musicofilo. Ci casca persino Emidio Clementi che ne “L’Ultima Notte Del Mondo”, brano contenuto nell’ultimo formidabile disco dei suoi Massimo Volume, mette in scena un immaginario consesso di personaggi – musicisti, scrittori, poeti, attori – che hanno dedicato parte della loro carriera al culto delle tenebre, in cui l’attore Bela Lugosi esterna tutto il suo fastidio per i nastri del texano. Innegabile è il fatto che i Disintegration Loops, 296 minuti divisi in quattro dischi, siano un’opera ostica, specie per chi è abituato ad ascolti più sintetici, come pure è indubbia la loro capacità di parlare della e alla contemporaneità attraverso un affiorare continuo di memorie che si sovrappongono e si sfaldano.

Il Basinski di On Time Out Of Time è almeno in parte differente da quello del suo lavoro più celebrato. La suite di 40 minuti, concepita originariamente per un’installazione di due artisti russi all’interno della mostra “Limits Of Knowing” allestita al Martin-Gropius-Bau di Berlino nel 2017, è stata composta utilizzando materiale sonoro ottenuto dagli interferometri del LIGO, un osservatorio statunitense ideato per il rilevamento delle onde gravitazionali: quello che Basinski ha inserito nella traccia che dà il titolo all’lp è il suono, captato dalle complesse apparecchiature, di due buchi neri che si fondono insieme. Non c’è questa volta molto spazio per la nostalgia, manca quell’aura classicheggiante che contraddistingue molti lavori di Basinski, niente loop scrostati o visioni oniriche, l’impressione è quella di contemplare l’incommensurabile in una condizione di immobilità spazio-temporale: l’arma utilizzata dal texano qui è il drone, o meglio una sovrapposizione di drone attestati su frequenze differenti, un ammasso di antimateria venata di stridii come light leak su una pellicola sottoesposta. La pulsazione irregolare viene scemando strada facendo, vaghi accenni di melodia sembrano saltare fuori da non si sa bene dove, quindi fremiti di basse frequenze sono il preludio ad un ritorno a quote più normali, a una dimensione quasi umana. La traccia 2, più breve, è la registrazione dal vivo di una performance tenutasi sempre presso il museo di Kreuzberg: qui William fa quello a cui ci ha più abituato, un loop di 10 minuti, per quanto ben piantato al suolo, meno elusivo del solito. In sintesi, un Basinski piuttosto atipico e non particolarmente originale: nel 2016 Lustmord porta a compimento un’operazione del tutto simile con esiti tuttavia molto più interessanti. Sulla sincerità dell’ispirazione del musicista sessantenne non nutriamo tuttavia dubbi – il padre lavorò per la NASA e contribuì all’allunaggio dell’Apollo 11 – e quindi non possiamo non riconoscergli il merito di maneggiare con una padronanza ineccepibile una materia a cui è in qualche modo legato.