Wiegedood: cani dall’inferno
Tanto per parlare subito di tabù e cose scomode, dando un contesto in cui muoversi, “Wiegedood” in fiammingo significa “morte nella culla”, mentre “de doden hebben het goed”, titolo dei primi tre album dei Wiegedood, significa che “ai morti batte bene”. La band è parte della stessa scena di Amenra e Oathbreaker, in alcuni casi si tratta delle stesse persone: al momento, infatti, gli Oathbreaker sono i Wiegedood più la voce personale e mutevole di Caro Tanghe. La trilogia dei morti contenti è sostanzialmente black metal legato a quello americano, atmosferico, ipnotico e senza fine, quindi si può pensare a Wolves In The Throne Room e Ash Borer. Non è che non si sentano le origini europee, ma il gruppo, nato nel 2014, due chitarre, una batteria e niente basso, ha metabolizzato entrambe, presentandole senza orpelli e badando più all’effetto finale che alla diversità tra un pezzo e l’altro. Non so quante volte ho scritto che il black metal non è tecnica ma un certo suono negativo che devi trovare: i Wiegedood hanno la chiave. Come sempre il paesaggio è la miglior metafora per spiegare questo genere musicale, il gruppo lo sa e il cielo come un coperchio grigio delle copertine della trilogia funziona meglio di qualunque recensione, così come gli alberi spogli e l’assenza di esseri viventi nel riquadro: c’è solo il simbolo dei Wiegedood, che lascia intuire la presenza di una qualche organizzazione umana, di sicuro diffidente e violenta, per certo costretta a vivere di stenti nel mezzo di una natura ostile.
Col tempo il gruppo si sta facendo conoscere: all’inizio, come giusto, era pubblicato dalla belga Consouling, poi è finito su Century Media, andando in giro nel frattempo anche negli Stati Uniti, togliendosi pure la soddisfazione europea di salire sul palco principale del Roadburn.
Il 14 gennaio è uscito There’s Always Blood At The End Of The Road, che è una deviazione della traiettoria dei Wiegedood. Non è uno stravolgimento, perché andando a ritroso nella discografia si scoprono indizi sul presente, più che altro è un evitare la stagnazione.
“FN SCAR 16”, in apertura, mette subito in chiaro le cose (essendo il nome di un fucile d’assalto belga): veloce, corrosiva, una muta di cani assassini uscita da qualche inferno. Ora i Wiegedood non si spingono oltre i 5 minuti, pestano più che possono, come se avessero bruciato viva la loro famiglia davanti ai loro occhi, corrono senza soluzione di continuità tra un brano e l’altro, e quando si fermano è solo per constatare impassibili la strage compiuta, circondati da tonfi sordi che producono con campionamenti ed effetti. A fungere da entr’acte sta “Now Will Always Be”, cantata nello stile dei Phurpa, per capirci (o di Attila Csihar, non è la prima volta che lo fanno), otto minuti ipnotici e sinistri, che insieme al vuoto sconfortante dei 2 minuti di “Wade” servono a riprendere fiato prima degli ultimi assalti di “Nuages” (scelta come primo assaggio dell’album, saprete dirmi se avevano ragione), “Theft And Begging” e “Carousel” (nella quale torna il throat singing). Abbiamo il primo disco dell’anno. Ero costretto a parlare con loro di tutto questo: mi ha risposto Levy (chitarra e voce, anche bassista negli Amenra fino poco tempo fa).
In molti avranno fatto questa domanda prima di me, ma voglio iniziare con qualcosa di facile: 4 album, 4 copertine, tutte con il vostro simbolo ben visibile al centro. Lo associo a quelli che si vedono in quei film folk horror (“Wicker Man”, “The VVitch”, “Midsommar”, “Hagazussa“…). Vi considerate qualcosa di selvatico, ostile, che si trova al di fuori delle città moderne?
Levy Seynaeve (chitarra, voce): Il logo, il sigillo, è una combinazione di tutte le lettere del nostro nome. Volevamo non solo un nome, ma anche qualcosa che fosse un simbolo, un emblema che ci distinguesse dal resto del mondo, qualcosa che rappresentasse noi tre e ci separasse non solo dalle città, ma proprio dal resto della società.
Sono vecchio, ascolto metal estremo da tanto tempo, anche black metal (le mie origini sono Mayhem, Emperor, Darkthrone…). Devo dire che nonostante questo per me è difficile trovare un disco che sia così pieno di rabbia come il vostro. Dove avete preso “la benzina” questa volta?
Volevamo che questo disco fosse diverso dai tre precedenti, che formavano una trilogia e avevano le stesse vibrazioni ed energie (si parlava di perdite, di emozioni, erano album atmosferici). Volevamo essere più compatti, un po’ più sorprendenti e più scomodi. Penso che la rabbia di cui parli sia un progresso naturale per noi verso ciò che desideravamo ottenere.
Il vostro nuovo album non segue “la regola delle quattro tracce” dei precedenti, e tu mi hai appena spiegato perché. Tentate di avere pezzi brevi, eccezion fatta per l’esperimento di “Now Will Always Be”. Quindi ho due domande, se ti va: perché tracce brevi (un po’ mi hai già risposto)? Che puoi dirmi su “Now Will Always Be”? Sembra qualcosa collegato al minimalismo e all’Oriente (quasi un mantra).
Per rispondere alla tua prima domanda, come hai detto tu i primi tre album avevano quasi una stessa impronta (quattro pezzi, artwork collegati). Lo avevamo deciso dal giorno 1, perciò quando iniziavamo a lavorare sapevamo già che dovevano essere quattro pezzi e che dovevano stare sui dieci minuti, avevamo un obbiettivo preciso. Quando abbiamo iniziato questo nuovo disco, invece, è stato come avere carta bianca e all’improvviso ci siamo trovati a poter fare ciò che volevamo, senza seguire le regole che ci eravamo imposti in passato. È stato liberatorio, ci ha dato possibilità di sperimentare, come hai detto tu. Se una canzone di tre minuti era buona, non ci sentivamo costretti a farla durare dieci, non avevamo restrizioni.
Per passare alla tua seconda domanda: è divertente che tu abbia detto “mantra”, perché è esattamente quello. Anche il testo è ripetuto ed è appunto un mantra sul vivere il momento, l’adesso, e non preoccuparsi del passato o del futuro.
Come ti dicevo prima dell’intervista, ho visto live sia Oathbreaker, sia Amenra, sempre a Lubiana. Le formazioni di Wiegedood, Oathbreaker e Amenra si intersecano. Lo sappiamo, penso si sappia anche in Italia. Nessuno di voi copia l’altro e avete personalità distinte, e questo è buono, ma condividete così tante persone e così tanti posti che io non posso non chiederti di raccontarmi anche solo una cosa su questa comunità belga di musicisti.
Siamo un Paese piccolo. Ci sono poche persone e ovviamente sono ancora meno quelle che hanno lo stesso interesse per un certo tipo di musica. La comunità di cui parli non è frutto di qualche pianificazione incredibile. Si è formata naturalmente.
Coi Wiegedood volevo a tutti i costi fare black metal e sono andato da Gilles (Demolder, l’altro chitarrista, ndr) perché suonavo da sempre con lui, ci conoscevamo bene ed eravamo già andati in tour insieme con le nostre vecchie band, dunque queste relazioni permettono a tutto di accadere in modo fluido. È una coincidenza, penso, ma allo stesso tempo è una conseguenza del fatto che più suoni con le stesse persone, più sai che ci puoi costruire qualcosa e crescere insieme, più sai cosa aspettarti. Siamo infatti al punto che io non riesco a immaginare di suonare con un batterista diverso da Wim (Sreppoc, ndr)…
Come dicevo, tutte queste band hanno una loro personalità. Cosa puoi fare coi Wiegedood che non puoi o non potevi fare in altre band?
Penso le parti aggressive, quelle sconfortanti. Appartengono specificatamente a noi. E anche la roba più psichedelica che facciamo nel nuovo disco non sarebbe possibile ad esempio con Oathbreaker o Amenra. Se scrivi musica, deve adattarsi all’immagine che hai in testa per la band per cui la stai componendo e questa non può essere riutilizzata in altri progetti, non avrebbe senso.
Mi pare che tu sia molto fiero del nuovo album. Sono d’accordo con te, tra l’altro. Hai detto che le tracce sono più brevi, che vi siete approcciati alle cose in modo diverso, che avete sperimentato… A questo punto, visto che è emerso da solo, ti chiedo quale è stato l’esperimento di maggior successo per voi con questo disco.
Una grossa differenza tra questo e quelli prima sta nell’aver usato molti campionamenti, qualcosa che non avevamo mai fatto sul serio. È stato grandioso, è stato come avere un nuovo mezzo, mai sfruttato da noi in passato, con cui aggiungere una certa atmosfera o una certa vibrazione alla musica. Scrivi un pezzo e ci metti sopra uno sottile strato di polvere o di fango o di qualunque cosa tu pensi ci sia bisogno, favorisce molto la percezione di cosa davvero sia il brano.
Di solito scrivevamo i pezzi in tour, ma in questo caso abbiamo lavorato per due mesi, abbiamo curato i dettagli, abbiamo cercato sorprese, elementi che la gente non si sarebbe aspettata e che scopri solo dopo più ascolti, e questo è uno dei cambiamenti più grossi per noi.
Mi hai dato un assist, perché la domanda che ti faccio ora riguarda un gruppo simile a voi, autentico e crudo come voi, che come voi utilizza campionamenti ed effetti (ha addirittura chiamato un musicista esterno rispetto alla formazione affinché si occupasse solo di questo). Li ho intervistati l’altr’anno, e questo è un segno, perché i Portrayal Of Guilt saranno in tour con voi in Europa…
… il tour comunque è rimandato (non sa se ridere o piangere, ndr)…
Male, vuol dire che una volta on line daremo la triste notizia ai lettori. Chi ha contattato chi? Chi ha pensato a questo “double bill”?
Tre anni fa siamo stati in tour negli Stati Uniti con gli Skeletonwitch e c’erano anche i Portrayal Of Guilt. Conoscevamo i ragazzi, siamo stati un mese on the road, erano la nostra band preferita del tour. Anche secondo me noi e loro siamo sulla stessa linea musicalmente e ci sembrava logico invitarli in Europa. Negli Stati Uniti eravamo davvero una buona combinazione e sono bravi ragazzi, ci siamo trovati bene insieme. Era giusto aiutarli a “spargere la loro voce” anche in Europa.
Chiudo l’intervista con la domanda che tutti vi avranno fatto, ma mi pare inevitabile: com’è saltato fuori il titolo “There’s Always Blood At The End Of The Road”?
Si posiziona all’opposto di “De Doden Hebben Het Goed” (titolo della trilogia, traducibile come “i morti sono quelli fortunati”), che parla dal punto di vista del morto. Con questa frase volevo invece partire dal punto di vista dei vivi, cioè noi: anche in questo periodo di lockdown, non importa ciò che accade, e non importa quanto sei felice nel corso della tua vita, la tua storia prevede sempre lotta e finirà con la morte, volevo far capire che non c’è “per sempre felici e contenti”.