While my guitar gently rings: intervista a Konrad Sprenger
Chissà se Jörg Hiller, meglio noto come Konrad Sprenger, sia ancora oggi definibile un chitarrista. Il suo sistema ibrido è uno strumento auto-costruito che funziona grazie all’interazione automatica tra diversi agenti meccanici, che intervengono sulle corde sotto la direzione, via laptop, dello stesso Sprenger. Non ci vuole molto per capire che questa chitarra, dal vivo o in studio, non suona esattamente come una chitarra. Konrad Sprenger – e i suoi lavori recenti che ora sanno di techno geometrica e appuntita, ora di minimalismo puro, ora di krautrock scarnificato – esplora pattern ritmici basati sull’algoritmo euclideo, to evoke a kind of cognitive insecurity through metrical dissonance, come leggiamo nella bio.
Il bello è che, nonostante l’approccio scientifico, il musicista e compositore tedesco è autore di una musica che il più delle volte, insospettabilmente, è in grado di suscitare atmosfere d’altri tempi. Piuttosto che lambire i territori della sperimentazione sonora tout-court, come forse sarebbe lecito aspettarsi, il suo ultimo disco (Stack Music, pubblicato da Pan nel 2017) suona al pari di una composizione barocca creata a partire da un armamentario minimale ma tecnologicamente avanzato. La sorpresa è grande, che abbiate o meno ascoltato i suoi (pochi) precedenti lavori: dall’album Ort (2004, Choose Records) composto a quattro mani con Ellen Fullman e così curiosamente folk, alle istantanee umoristiche di Miniaturen (2006, ancora Choose), che sono dei veri e propri montaggi a base di sintetizzatori, mandolini, fisarmoniche, tromboni, chitarre e chissà che altro, tali da portare alla mente lo spirito teutonico di una brass band inzuppata di birra. Ai tempi qualcuno ha pure tirato in ballo l’arte dell’assemblaggio: come osservare una delle famose Scatole (le Shadow Boxes) dell’artista Joseph Cornell.
Dal 2004 Konrad Sprenger porta avanti la succitata Choose Records, con la quale ha stampato e ristampato nomi di un certo peso, magari aderenti alla seconda generazione del minimalismo newyorkese e impegnati nello studio delle risonanze armoniche prodotte dagli strumenti a corda (Arnold Dreyblatt, Ellen Fullman); o legati alla storia della sound-art (Terry Fox, Robert Ashley, Robin Hayward). Mentre allo scorso agosto risale la techno psichedelica e mentale dell’ep Panama / Suez, frutto della collaborazione con Oren Ambarchi e Phillip Sollman.
Venerdì 2 novembre Konrad Sprenger suonerà la sua chitarra elettrica multicanale presso il Teatro San Giorgio di Udine, nell’ambito della rassegna Forma – Free Music Impulse, che ci ha dato l’opportunità di intervistarlo.
Ci spieghi il funzionamento, che sappiamo essere anche molto meccanico, di questo tuo sistema ibrido basato su una “chitarra elettrica multicanale” controllata da un computer?
Konrad Sprenger: Il funzionamento della mia chitarra è basato su un’interfaccia fatta su misura che controlla sei motori a solenoide che interagiscono con le corde e modificano l’accordatura in tempo reale, con estrema precisione. Ci sono anche due semplici motori a velocità variabile con dei lacci che di tanto in tanto picchiano le corde, oltre a un sustain pick up che le fa vibrare indefinitamente. Dirigo l’intero sistema grazie a una patch di Max Msp che ho installato sul computer.
Ho iniziato a lavorare con sistemi rudimentali già alla fine degli anni Novanta, implementando unicamente i lacci da scarpa che, picchiando le corde a velocità non riproducibili da un essere umano, creavano bordoni complessi e incessanti. A quel punto avevo bisogno di un metodo che mi permettesse di frenare il movimento dei motori e di esplorare ulteriori aspetti musicali prodotti dall’azione meccanica sulle corde; volevo inoltre essere in grado, durante i live, di poter suonare altri strumenti contemporaneamente al sistema. Poi, nel 2011, ho individuato dei motori industriali che funzionano a velocità ridotte e ho iniziato a sperimentare con dei martelli magnetici e con i solenoidi. Una fortuna aver collaborato con lo sviluppatore di strumenti tecnologici Sukandar Kartadinata e col programmatore Daniel van den Eijkel: è grazie a loro che il mio sistema ha preso finalmente vita.
La chitarra ha pick up esafonici magnetici e piezoelettrici i cui impulsi passano per l’interfaccia e poi vengono inviati al sistema di amplificazione. Ogni corda ha il suo output, quindi posso utilizzare sei altoparlanti, se la location lo permette. Di recente ho iniziato a suonare con sei amplificatori, è stato fantastico e spero possa capitare più spesso.
Come definiresti il rapporto che hai negli anni instaurato con questo tuo singolare set-up? Viscerale, intimo, conflittuale?
Con la mia chitarra ho un rapporto prettamente scientifico. Il sistema di cui faccio uso mi dà la possibilità di scoprire quasi tutti gli aspetti del suono che l’eccitamento di una corda può produrre. Infatti è come se avessi a disposizione una lente di ingrandimento. Posso controllare una varietà di parametri quali la velocità e il tempo, l’attacco, l’intensità, l’intonazione (il che mi permette di scegliere tra i diversi sistemi di accordatura). E poi, quando dispongo di sei altoparlanti, posso idealmente controllare il posizionamento di ogni corda nello spazio, ottenendo una spazializzazione multicanale del suono.
I limiti degli strumenti tradizionali e le tecniche loro proprie mi hanno sempre condizionato, quindi ho speso un sacco di tempo andando alla ricerca di soluzioni innovative. Un set-up del genere mi permette di creare complessi pattern ritmici, di riaccordare automaticamente le corde, e di espandere radicalmente le possibilità della chitarra, che a volte suona come uno strumento elettronico, come chissà quale cordofono tradizionale o, addirittura, come un’orchestra. Per me è come suonare con un sintetizzatore primitivo e con una drum machine allo stesso tempo, navigando verso infinite direzioni musicali.
Magari in altri contesti, ma credo di aver già sentito parlare di “minimalismo barocco”, come qualcuno ha definito la tua musica. Posto che ogni etichetta è di per sé limitante, va detto che in questa risiede una contraddizione interessante. Tu cosa ne pensi?
Non ne ho mai sentito parlare, ma è una definizione che mi piace. Immagino di condividere un interesse per il potere strutturale dei gesti musicali ripetitivi, e in qualche modo di attingere anche dall’imitazione canonica e dal contrappunto, il che ha portato la mia musica (specialmente nei primi album) a un livello molto primitivo. È musica decisamente influenzata dai primi esempi di strumento meccanico come le pianole e i cosiddetti Orchestrion; così come dalle composizioni per pianoforte meccanico di Conlon Nancarrow e soprattutto dal pre-war folk (tra gli altri, Dock Boggs e Clarence Ashley), dall’American Primitivism di John Fahey, dal minimalismo, dal krautrock e dalla techno.
Più di recente hai allargato le tue composizioni. Quelle di Stack Music non sono più le amabili vignette di Miniaturen. È stato un cambiamento fatto con consapevolezza o per istinto? Corrisponde alla direzione che seguirai anche nel prossimo futuro?
È un mix di entrambe le cose. Sono sempre impegnato in differenti tipologie di musica ma, grazie al sistema multicanale, ha senso che attualmente il mio interesse verta sulle performance dal vivo. Io ho origini da batterista e da chitarrista, ma ho speso anni chiuso in studio in faccia a un computer. Se nei miei primi dischi ero io a suonare quasi tutti gli strumenti, poi ho realizzato che esibire quella musica dal vivo comportava ingenti spese di produzione perché avevo bisogno di almeno quattro musicisti, se non di una piccola orchestra. E raramente ho avuto un’opportunità del genere: sarebbe bello se succedesse più spesso.
Comunque, il progetto che porto avanti oggi è fondamentalmente un buon mix di tutti i miei interessi e background musicali. Posso dire che questo sistema per chitarra è così complesso e divertente che di certo mi terrà impegnato a lungo.
Nel doppio singolo Panama / Suez, uscito di recente, collabori con Oren Ambarchi e Phillip Sollman, aka Efdemin. Quest’ultimo è un produttore techno ma, per dire, è anche uno che ha rivisitato – con l’Ensemble Musikfabrik – le composizioni di un pioniere nell’ambito della ricerca timbrica e degli strumenti autocostruiti come Harry Partch. Certi incontri non sono mai casuali, vero?
Conosco Phillip Sollman da quindici anni, quindi la nostra amicizia ha ben poco a che fare con Harry Partch. Certo, abbiamo parecchi interessi musicali in comune. Da quattro anni collaboriamo e in tempi recenti abbiamo messo a punto un organo modulare (a Modular Organ System). È un’installazione che esplora le possibilità di un organo modulare a canne, sviluppata in collaborazione con programmatori, carpentieri, costruttori di organi e artisti.
Con la tua Choose Records hai lavorato, collaborandoci o ristampandoli, con i principali “precedenti” nell’ambito del campo in cui ti muovi oggi: “strings-focused people” come Ellen Fullman o Arnold Dreyblatt. Dev’essere una bella soddisfazione…
Sì, è stata una fortuna averli incontrati quando ero ancora molto giovane, specialmente Arnold Dreyblatt. Ho iniziato a collaborare con lui nel 2000 e da allora abbiamo lavorato a varie produzioni, performance e in formazioni che includevano Joachim Schuetz, Oren Ambarchi, Jim O’Rourke e Robin Hayward, tra gli altri. Poi nel 2003 mi ha presentato Ellen Fullman, con cui ho prodotto l’album Ort e suonato varie volte insieme.
Puoi anticiparci qualcosa sulla performance che terrai a Udine durante la rassegna Forma? Hai altre date in programma?
A Udine suonerò il mio sistema per chitarra multicanale. Purtroppo al momento non ho altre date in Italia. Il prossimo concerto è fissato per il 18 novembre al Berghain di Berlino, dove suonerò con Oren Ambarchi e Phillip Sollman.