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VON, Dark Gods: Seven Billion Slaves

VON

Qualche tempo fa avevamo provato a tracciare un po’ il profilo di VON, in occasione dell’uscita del primo album, quel Satanic Blood che andava a recuperare la demo storica e la riproponeva con una nuova registrazione. Lo si era catalogato come un atto nostalgico, e alla fine l’intenzione di Venien era proprio quella di dare una forma definitiva a tutte quelle composizioni che sono sopravvissute nel tempo attraverso demo amatoriali, bootleg clandestini e riedizioni non autorizzate. Una formula simile viene usata anche per il primo capitolo di una nuova trilogia (Dark Gods), dato che Seven Billion Slaves è composto almeno in parte da materiale inedito che era stato accumulato negli anni. Le similarità con Satanic Blood sono quindi frequenti e immediate, ma brani come “Hands Of Black Death” e “Ancient Flesh Of The Dark Gods” dimostrano che il progetto ha saputo anche allargarsi verso sonorità più profonde, trovando forza in un riffing serrato e ipnotico nel suo continuo reiterarsi. Nel secondo pezzo compaiono come guest i Coffinworm, altri protagonisti del marciume metallico all’americana (ma decisamente più giovani), e questo ci lascia intuire che Venien, negli ultimi anni, non sia forse stato del tutto estraneo alle dinamiche odierne della musica estrema. In ogni caso non significa che ne sia stato esplicitamente influenzato: nonostante tutto rimane comunque ancorato a quelle stesse strutture tipiche del black metal primordiale dei VON, con tutti i suoi pregi e difetti. Il disco, dunque, si sviluppa intorno a crudi flussi metallici a cui si affiancano delle classiche percussioni martellanti, un’accoppiata abbastanza semplice ma tutto sommato efficace, capace di creare un’atmosfera essenziale che riempie il disco di oscurità e malessere. Venien tende purtroppo a utilizzare tutta una serie di suoni e distorsioni molto simili tra di loro, che da un lato possono anche risultare di un certo effetto, ma dall’altro corrono spesso il rischio di trasmettere un senso di noiosa ripetitività.

Rimane tuttavia molto difficile trovare a Seven Billion Slaves una collocazione nella scena musicale contemporanea: è un caso isolato, un oggetto assolutamente autoreferenziale che sembra essere uscito da un’altra epoca. E un po’ è così, in effetti.