Volcano Waves: viaggio nella musica dei Retina.it

Retina.it - foto di Pierpaolo Patti

Introduzione

Sud Italia, Campania: Pompei e dintorni, per la precisione. Qui all’inizio dei Novanta operano (e si conoscono) due ragazzi, Nicola Buono e Lino Monaco. Amano la new wave, il punk, l’elettronica, il dark, e cominciano a fare la spola verso Napoli, città nella quale chiaramente si muove più di qualcosa, alludiamo ai primi vagiti hardcore-punk di Underage e Contropotere, ai più trasversali Bisca, e metteteci pure il raffinato electro-pop dei Panoramics (per dire della varietà musicale dell’epoca, e sarebbero altre lunghe storie da raccontare queste). Monaco si trova meglio con le sonorità più wave (proviene dai misconosciuti e acerbi Voxzema, ora ristampati a sorpresa per la spagnola Domestica Records, poi milita nei Cyb, gruppo industrial-rock dei primi Novanta). Buono pure, però lui si avvicina di più alla figura di un dj, e incomincia ad appassionarsi alla costruzione di synth modulari. La voglia è quella di fare della musica elettronica di spessore, tanto che a metà anni Novanta nascono i Qmen, fugace progetto elettronico dalla vita breve, con loro un certo Rino Cerrone (i più attenti lo conoscono per la sua carriera solista). Il sodalizio, come dicevo, dura poco: fanno in tempo a pubblicare tre ep (uno per la Design Music di Marco Carola) e non mancano un bel po’ di date per farsi conoscere, poi si eclissano. In seguito alla separazione nascono in sordina i Retina, ma dopo poco verrà aggiunta la .it finale.

Viaggio nella discografia

Nel tentativo di fare propria un’idea di musica legata a un nuovo e potente linguaggio che cambierà molte cose (si veda il nome che si scelgono), passano per una fase di necessario rodaggio arrivando a fine Novanta, quando viene alla luce l’esordio autoprodotto, “Wav ~ 1 – 10 – CD Demo” (1999), sorta di lavoro-prova con tracce senza titolo che anticipa di un paio di anni il vero e proprio debutto discografico per il duo, quel Volcano.Waves 1 – 8, pubblicato per la chicagoana Hefty Records. Chi di voi è addentro a un particolare tipo di elettronica, che in parte mescola austerità europea con pragmatismo estetico tipicamente yankee, conoscerà allora band del calibro di Telefon Tel Aviv, T-Raumschmiere, Euphone, ma non mancano al suo interno realtà di matrice più rock come L’Altra, John McEntire (Gastr Del Sol e Tortoise) o Savath + Savalas e The Aluminium Group, tanto per sottolineare la trasversalità di quest’etichetta (che non a caso li sceglie) per la verità da qualche anno rimasta un po’ al palo; probabilmente è finito un ciclo, chissà. Dicevamo di Volcano.Waves: è un album nel quale fanno capolino più temi stilistici, la filastrocca electro di “Plinius Observer”, la guisa orientaleggiante della marziale “Lander” (dove trova posto uno scacciapensieri) e “Piroclastic Flux”, che rimane sempre su quei toni techno. Il finale è per la texture in salsa sci-fi di “Obsidian”. Le basi per un progetto solido sono dunque ormai gettate, i due incominciano a farsi vedere in giro (continuando a pubblicare anche senza etichetta, vedi un disco a nome Worm; il sottoscritto ha pure la fortuna di vederli dal vivo nel 2002 in una delle prime edizioni di Dissonanze, storico festival capitolino dove sono passati mostri sacri, e i nomi più diversi, dell’elettronica (Carsten Nicolai, Fennesz, Lory D, Plaid, Thomas Brinkmann, Underworld…). Fanno la loro comparsa un pomeriggio soleggiato di settembre, all’interno del Chiostro del Bramante, e rimane impressa nella mente un’esibizione parecchio tosta dietro un piccolo muro di synth; poi ricordo Aoki Takamasa, Prefuse 73, e Geir Jenssen aka Biosphere. Quest’ultimo, a un certo punto, abbandona stizzito il set per via del gran baccano provocato dal pubblico che in pratica si faceva i fatti propri, per tornare dopo qualche minuto e dopo le reprimende della organizzazione, ma ormai l’esibizione è rovinata. Tra il pubblico riconosco un solitario ed incuriosito Raiz degli Almamegretta. A conti fatti quella è stata l’unica occasione, ad oggi, per vedere in azione il duo campano.

Nel 2004 è la volta dell’album omonimo, sotto l’egida dell’ormai inattiva Mousike Lab, entità discografica nata dalla collaborazione col conterraneo Marco Messina (99 Posse, Nous), dalla quale sortisce pure il progetto Resina (un unico album uscito nel 2003 col titolo di Opinio Omnium). Per rimanere in questa sorta di crasi estetico-musicale, nel disco si mette il piede sull’acceleratore di istanze IDM e vagamente più pop (d’altronde quello è un periodo d’oro per gente come Autechre, LFO, Boards Of Canada, Dntel, Plaid e la Warp Records). Il lavoro, ricordato per la copertina col particolare di quello che sembra un cavolo romano, si fa notare per il generale taglio più “morbido”: affiorano qua e là lontane reminiscenze orientali (la suite quasi à la Yellow Magic Orchestra di “Zafari”), l’elettronica sempre dal sapore alieno di “Papc”, dove pare di sentire i mai troppo osannati Drexciya, e la velatamente carpenteriana “Sambush”, che dona quel tocco apocalittico che è logico trovare in produzioni come questa. Non mancano episodi più astratti, vedi l’apertura dell’acquatica “Aaghee”, o “Lost Ctrl” e “12set”, dove affiora un “minimalismo” piuttosto marcato, mentre “Comamilla” gioca di rimbalzi ritmico-melodici. Questo self-titled, riascoltato a distanza di molti anni, conserva con fierezza una sua indipendenza appunto tutta melodica, pur scontando il fatto di essere uscito proprio in “quel” momento, nel bene e nel male.

Lunga pausa per i due, che nel frattempo partecipano a un’edizione dell’ormai storico Sonar (nel 2006) di Barcellona, tempio dei grossi happening tanto tornati di moda in quel periodo. Nel 2007 è la volta di Semeion, raccolta di tre precedenti ep in formato 12” (“Nulla”, “Strutture” e “Manifesto”) e tracce inedite, sempre per la Hefty, e le coordinate electro cambiano, lo si evince già dalla traccia posta in apertura, “Tetsub”, tutta un florilegio di traiettorie mutanti (e kraftwerkiane) con base ritmica piuttosto accattivante, ma la parte del leone la fanno una “Zucchine Alla Scapece” (titolo ironico e pure in un certo senso “poetico”) sorda e di matrice quasi downtempo (sempre da un’ottica fieramente “astratta”), l’intermittente “Remx Menta” e la malinconica chiusura di “Civiltà Meccanica”. Non a caso il disco sembra portare avanti proprio un discorso basato sulla decostruzione delle ritmiche, vedi la dura e fluttuante “Zilencer” e la sincopata e robotica “Tren Ri Cosei” (con l’amico video maker Claudio Sinatti a “comporre per immagini” il pezzo). Interessante pure qui la copertina, opera del designer statunitense John Truex, con quella che pare un’istallazione luminosa in tutti i sensi, degna metafora di una forma musicale sempre eterogenea e, va da sé, “illuminante”.

Retina.it - foto di Pierpaolo Patti

Altra pausa, si arriva al 2011 ed esce Randomicon. Con questo lavoro, licenziato per la spagnola Flatmate del giro Störung di Alex Gámez (Asférico), i due intraprendono un percorso forse meno legato alle tradizionali istanze elettroniche/techno e cominciano ad allargare il raggio d’azione per merito di robuste iniezioni di suoni quasi più terrestri. Le atmosfere sono tese, sempre parecchio squadrate certo, il sapore è di sicuro più materico (e magmatico). La title-track è puro ermetismo sonoro, tra battute ritmiche sempre uguali a se stesse, simili a metaforiche scudisciate, e melodia “grassa”, come succede ad esempio nella severa “A Model For Nonspherical Collapse”. “Render” sa invece di industrial fiera, ma è tutto l’album a esprimere un atteggiamento stilistico poco incline al compromesso, si ascoltino i segnali morse della potente “Rotating Solutions” o “Particelle Ultraleggere”, che è metallica e atmosferica allo stesso tempo. Ancora degno di nota l’artwork, opera dei designer AP_AA, che creano una serie di infiniti anagrammi legati al titolo, quindi chi è in possesso del disco ha praticamente copia unica.

Nell’anno successivo, a maggio 2012, arriva invece il nuovo Descending Into Crevasse per la romana Glacial Movements di Alessandro Tedeschi / Netherworld (in catalogo Francisco López, Loscil, Lull dell’ex Napalm Death Mick Harris, Pjusk). L’album è testimonianza di un passaggio fondamentale per Buono e Monaco. In quest’occasione le idee sono sviluppate – e prima pensate – con rinnovata efficacia espressiva ed estetica (notevole la copertina del fotografo norvegese Bjarne Riesto, che si è occupato di altre uscite dell’etichetta capitolina). Ci troviamo di fronte a una delle loro uscite meno incasellabili. Va da sé che i Retina.it ormai sembrano di un altro pianeta, e le critiche della carta stampata e dei web-magazine, tutte positive, sono lì a testimoniarlo. Un album come questo, insomma, dimostra di saper tirare dritto per la propria strada ed è generosa testimonianza della strana avventura che rimane la loro musica (il disco in questione, mi confessa Monaco, è tra l’altro ispirato dalle opere di Bach e Debussy e dai lavori di Giacinto Scelsi e Bruno Maderna). La traccia che lo apre, “Synth On Axis”, è gelida caduta negli interstizi di un crepaccio (o di una placenta immaginaria): decisiva la collaborazione col sodale Fabrizio Matrone (Heidseck e Matter), ed è da qui che si parte per un viaggio che forse non prevede alcun ritorno. Tanto spaventosa, ed allo stesso tempo affascinante, questa discesa da prevedere una traccia come l’ipnotica “Attrazione Magnetica”, dove si trascende dai soliti modelli per approdare a una forma ibrida di isolazionismo mai fine a se stesso. Da segnalare inoltre “Moonshine”, evocativa e dall’afflato “ascetico”, e la finale title-track, un maelström cosi intenso e profondo da rappresentare quasi una metaforica crisi esistenziale senza precedenti, chiusura di un lavoro meditato e perfetto nel suo insieme.

Recente è invece l’approdo alla tape-label partenopea Joy De Vivre. Con Ops_ci i due tornano indietro nel tempo per riportare alla luce pezzi che erano rimasti in archivio. La cosa interessante è che le composizioni risultano fresche e genuinamente fuori da ogni catalogazione spazio-temporale: da menzionare la sensuale e ritmica “Ntile” o le morbide sciabolate elettroniche di “Nove”, e le nascoste citazioni proto-jazz che fanno timidamente capolino in “Neon”. Altro elemento da non sottovalutare il fatto che pubblichino il nastro per un’etichetta che in genere si occupa di cose abbastanza diverse dalle loro (A Spirale, Elisha Morningstar, Kam Hassah, Lyke Wake…) tanto per sottolineare la trasversalità, e in fondo l’unicità, dei Retina.it.

Altre uscite e collaborazioni

Premesso che la parte dedicata alle uscite extra del gruppo potrebbe durare un articolo intero, va detto che i due non si sono mai fermati, ed hanno sempre provato a proporre la loro “cosa” nei contesti più diversi tra loro (mantenendo però una coerenza rimarchevole). Cito tra le tante (ma il loro sito ufficiale vi spiega tutto in proposito) il remix per gli Illachime Quartet di Fabrizio Elvetico, le collaborazioni video col compianto Claudio Sinatti, quella coi Dadub e di recente con Gianluca Becuzzi, poi le musiche per il mediometraggio “Janvier”, prodotto dalla Mastofabbro (casa di produzione cinematografica dell’amico Pier Paolo Patti), e qui va sottolineata la speciale assonanza con il comparto “immagini”, si veda sempre il loro sito web alle voci “media/videos”. Tornando indietro di qualche anno, mi piace segnalare la partecipazione alla storica fanzine Equilibrio Precario (con “Agni” inserita in “EP Rom”), al progetto audio/video di “MediaTerrae  Vol.1 – Irpinia Electronic Landscape” (allegato a Blow Up), per una compilation dell’arcinota rivista The Wire, e poi la partecipazione col pezzo omonimo da Descending Into Crevasse per la nostra prima mixtape. Si potrebbe davvero continuare a lungo.

Breve e necessaria postilla

In breve, rimane da sottolineare quanto la loro proposta rimanga difficile da ingabbiare in una sola definizione; i Retina.it fanno musica profondamente “umana”, seppur dalle evidenti sembianze “aliene”, spesso senza voce. A pensarci bene la loro musica è “voce delle macchine”, testimonianza di un’importante evoluzione tecnologica, e per questo intrinsecamente “nuova”, ma soprattutto “viva”.

Retina.it - foto di Pier Paolo Patti

Intervista a Nicola Buono e Lino Monaco

Per completare quest’articolo non potevano mancare le dichiarazioni dei Retina.it, sempre illuminanti, a conferma di un’esperienza più che ventennale, e segno di una vitalità artistica davvero degna di nota, tutte qualità che i due possono vantare senza dubbio alcuno.

Ciao Lino e Nicola. Innanzitutto vi devo ringraziare perché siete stati molto disponibili a darmi le informazioni necessarie per completare la monografia. Volevo subito partire da una considerazione che ho fatto riascoltando i vostri lavori. Da tempo rifletto sul fatto che in passato ci siamo spesso adoperati per cercare musiche interessanti fuori dai nostri confini, quando invece abbiamo avuto band notevoli. Voglio dire: se uno segue, diciamo, un certo tipo di rock, è chiaro che poi si confronti con la cultura anglosassone, quando invece si esce dal solito “giro” ecco che ci si imbatte in realtà diverse, che ho (abbiamo) in parte colpevolmente snobbato. Ditemi la vostra.

Nicola Buono, Lino Monaco: Che l’italiano sia un amante dello straniero è un fatto ormai noto, questa triste verità la conosciamo tutti. È il minimo comune denominatore che caratterizza scelte in tutti gli ambiti sociali. Inutile parlare del perché i giovani italiani fuggano in altre terre per realizzare le cose in cui credono. Abbiamo un passato al quale guardiamo poco. Siamo un popolo con una grande storia, che però si piega di fronte alle difficoltà, e di conseguenza diamo per scontato che gli altri siano una spanna più avanti di noi. In musica tutto questo comportamento è una conseguenza, ma se impariamo a leggere la storia, notiamo che anche nel passato accadevano le cose che tu dici e con le stesse dinamiche. Se ad esempio in ambito new wave parliamo di Litfiba o dei Pankow, ci accorgiamo che il loro passato è coronato da successi prima in altri paesi, e dopo da noi. Vogliamo parlare di colonne sonore della cinematografia italiana? Doveva dircelo qualcun altro che da noi avevamo un patrimonio musicale di dimensioni immense, e che personaggi come Piero Umiliani, Ennio Morricone, Piero Piccioni, sono stati fonte di ispirazione delle star di musica elettronica contemporanea di mezzo mondo? Allora è una questione di apertura mentale o una semplice questione di trend?

Torniamo un po’ indietro nel tempo: raccontatemi di come e perché avete incominciato a suonare.

Lino Monaco: Mio nonno era un grande amante dell’Opera, ne conosceva molte a memoria ed era lì che cantava sempre. Avrebbe voluto che imparassi uno strumento classico, ma sinceramente ero troppo pigro per mettermi d’impegno a fare esercizi. Cosi decisi che nella vita avrei cantato, ma mi resi conto che tutto ciò su cui cantavo era lontano da una mia idea di musica. Nel frattempo mi interessavo sempre di più a nuove sonorità, e l’elettronica era ciò che più catturava la mia attenzione. Decisi cosi di comprare un campionatore. L’idea di poter arrangiare brani con materiale sonoro già organizzato mi fece accostare a questa pratica, ma la cosa non era affatto semplice, anzi, diciamo che forse sarebbe stato meglio se avessi seguito il consiglio del nonno.

Nicola Buono: Ho iniziato nel Novanta a prendere lezioni di chitarra e a suonare in cantina con amici, per poi passare come dj in festicciole di compleanno o eventi organizzati per lo più da me, sempre con gli amici. Dalla musica italo-disco che andava benissimo in quei contesti sono passato a sonorità più dure della techno, che non si sposavano bene con l’ambiente in cui mi trovavo. Per esigenza personale, incominciai a ricercare approcci alla musica “diversa” tramite le poche informazioni che riuscivo a racimolare su riviste come Neural, Future Music… Da lì incominciai a comprare musica via posta e a farm affascinare dagli strumenti elettronici. Capii che dovevo abbandonare chitarra e piatti e dedicarmi al mondo delle produzioni, scambiando chitarra e l’ampli con un synth monofonico della Davoli. Poi acquistai il mio primo campionatore, il mitico Atari 1040. Successivamente conobbi Lino.

Per Nicola: tu sei, per cosi dire, il “tecnico” della situazione, costruisci la strumentazione con la quale poi registrate. Credo che sia cosa rara questa, di solito un musicista acquista quello che gli occorre e poi incomincia a comporre. Tu invece parti proprio dal grado zero. È una faticaccia, o non ci pensi troppo a questo fatto?

Tecnico è troppo, sia io sia Lino siamo degli autodidatti. È affascinante e tossico il mondo del “diy”. Il nostro scopo è sempre stato quello di ricercare sonorità diverse da quelle che il mercato degli strumenti musicali ci offrivano; ricordo che negli anni Novanta/Duemila dedicavamo molto tempo al costruirci kit di suoni per il campionatore, registrando di tutto, editando e aspettando i tempi della macchina per il load/save dei floppy disk, ma alla fine gli sforzi venivano ripagati da suoni inediti e funzionali per il nostro progetto. Ora l’attenzione si è spostata sullo stesso lavoro artigianale, sicuramente più dispendioso, a volte noioso e snervante, ma alla fine la soddisfazione è la stessa, ripaga. Anche se mi rendo conto che crea dipendenza, e che potrebbe togliere tempo ad altre attività. Oltre a questa motivazione, c’è da dire che si risparmia denaro sull’acquisto di macchine con le stesse funzioni, dove spesso il marchio la fa da padrone.

Domanda a Lino: i Retina.it hanno un approccio alla materia direi piuttosto “mentale”, e i vostri gusti si sono forgiati con la cultura cyberpunk, nel dark, nell’hardcore, e in letture fantascientifiche, senza dimenticare l’amore per i seguaci della dodecafonia, penso a Giacinto Scelsi (citato in Descending Into Crevasse) e alla musique concrète (Pierre Schaeffer). Come riuscite a conciliare questo aspetto con la parte “fisica” (sarà banale dirlo, ma se penso all’elettronica penso anche al movimento di un corpo) che c’è nella vostra musica?

Devi sapere che smettemmo di fare techno, e quindi azzerammo Qmen, perché in quelle vesti avevamo una sola missione, far ballare la gente durante i nostri live. Era musica seriale, doveva svolgere una sola funzione e lo faceva bene, quindi appagava solo l’aspetto fisico, tralasciando quello mentale. Ma, da voraci ascoltatori quali siamo, più che da provetti danzerini, eravamo affascinati anche da altri aspetti della musica, quello appunto mentale e più “intimista” ad esempio.  Da appassionati lettori di tematiche cyberpunk, e non solo, abbiamo sempre dato rilievo al lato più psichico della musica, cercando di evocare con i suoni un immaginario celato appunto nella psiche degli ascoltatori. Citando il Futurismo dei primi del Novecento, “Le Città Hanno Un Suono”, per qualcuno potrebbe essere rumore, ma è un rumore assimilato e di ormai facile codifica. L’uomo si è spinto oltre, ed ha costruito macchine sempre più sofisticate, le ha connesse in rete e ha creato un universo parallelo. Ora anche l’universo Internet possiede un proprio suono. La nostra musica è il frutto della contemporaneità e il suono che produce è il frutto della decodifica di ciò che oggi ci circonda.

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E quanto credete di essere cambiati nel tempo? Ci sono differenze di approccio (compositivo, stilistico) dai primi album alle ultime uscite?

Lino Monaco: Più che cambiare ci siamo evoluti in un contesto, rappresentato da strumenti musicali fondamentali in un’era passata. La nostra insomma è una Devo-lution (passateci la citazione perche siamo tuttora Devo-ti). Sostanzialmente il nostro modus operandi è sempre lo stesso: registrazioni di sessioni live lunghe, da cui estrapoliamo, come in una sorta di intervento chirurgico, il materiale che riteniamo più idoneo e che andrà a costituire la traccia finale. L’editing rappresenta, dal nostro punto di vista, la parte meno interessante del processo, viene svolto su computer, e dato che la nostra “Devo-lution” implica il minor uso possibile di software e tecnologia digitale, cerchiamo di essere quanto più precisi possibile nell’ottenere nella sola sessione improvvisata una traccia che fotografi in un solo “click” lo stato d’animo e la nostra conoscenza acquisita.

Altro tuffo nel passato: parliamo della scena punk e dei centri sociali nella Napoli degli Ottanta, torniamo agli esordi dei Voxzema (con Lino), per arrivare ai Qmen con Rino Cerrone. Ne avete fatta di strada insomma.

Lino Monaco: I Centri Sociali sono una storia di fine anni Ottanta, inizio Novanta. L’esperienza dei Voxzema si colloca invece poco prima di quel periodo, tra il 1986 e il 1989, e in quegli anni da Napoli a Salerno si contavano pochissime realtà. Vivendo per lo più nella nostra città di provincia, e con poche possibilità di confronto con le realtà metropolitane, dovevamo contare solo sulla nostra esperienza, che era pari a zero. Con le scarse informazioni che viaggiavano ai tempi riuscimmo a capire come si poteva fare una demo registrata in casa, e cosi comprammo un quattro piste. L’idea di entrare in sala per registrare neanche ci sfiorò, perché le uniche che c’erano erano specializzate in musica popolare napoletana, per cui ti lascio immaginare. Oggi, nel 2014, quella demo è diventato un vinile, stampato dalla label spagnola Domestica, che non si sa in quale modo ne sia venuta in possesso. Finita la mia esperienza con i Voxzema mi unii ad altri amici, tra questi c’era l’allora sedicenne Ercole Longobardi dei futuri Polina. Creammo una nuova band che chiamammo Cyb, era il 1991. Andai via anche da quel gruppo perché non mi convinceva il percorso che avevamo intrapreso, nel frattempo già smanettavo sul mio campionatore Akai S950, e di tanto in tanto facevo le mie selezioni musicali nei vari Centri Occupati o nei club napoletani. E proprio durante una serata di quelle che incontrai Nicola, allora diciassettenne. Rimasi stupito dal fatto che lui conosceva una delle label fondamentali in Italia per certi percorsi di musica elettronica (la barese Minus Habens), ma soprattutto rimasi stupito dal fatto che lui possedesse un campionatore. La differenza tra ieri ed oggi è solo che l’informazione viaggia molto più velocemente e su più canali, per cui tutti sanno un po’ tutto, a quei tempi invece era talmente raro trovare persone con i tuoi stessi “flip”. Beh, quindi era ovvio chiedergli di vederci e di iniziare un percorso insieme. Quiet Men, che era il nome che scegliemmo all’inizio, riuscì a pubblicare un brano, appunto, in una compilation di quella label che era stata oggetto della nostra prima conversazione. Facemmo numerosi live set, soprattutto in ambienti rave, e in uno di questi incontrammo Cerrone con il quale entrammo subito in sintonia, il nome mutò in Qmen. Insomma a pensarci adesso fa uno strano effetto.

Nicola Buono: Data l’età ho avvertito solo una lontanissima eco di tutta la scena punk degli Ottanta. Sicuramente la techno della metà dei Novanta racchiudeva stimoli che venivano da quella scena. Me ne rendevo conto, oltre alle sonorità, anche dal pubblico che frequentava gli eventi techno.

Ci sono poi il tour americano del 2004 con Telefon Tel Aviv e L’Altra, l’importante partecipazione al Sonar nel 2006, e quella più recente allo Störung Festival. Cito pure le collaborazioni col compianto Claudio Sinatti, con Fabrizio Matrone (Matter, Heidseck), e col film-maker Pier Paolo Patti della Mastofabbro (avete curato il suono e parte delle musiche del suo ultimo medio metraggio, “Janvier”).

Lino Monaco: Questa mappatura esatta ci catapulta nel recente passato ora!

Le tue citazioni sono parti essenziali delle esperienze che ci hanno formato, in campo live e visual. Conoscemmo Claudio subito dopo Volcano.Waves 1 – 8, lui si mise in contatto con noi dicendoci che avremmo dovuto fare qualche live insieme, e cosi fu. La performance “Mnelettritalis” fu presentata in diversi festival, tra cui il Synch di Atene. Lui era una gran bella persona. Quando ci incontrammo per la prima volta era come se ci conoscessimo da sempre. Sai, quelle situazioni in cui senti di avere tante cose in comune con una persona, di quando superi da subito quella difficoltà iniziale del primo incontro. Insieme a Marco Messina lo rividi un’ultima volta, qualche mese prima della sua dipartita, e nonostante lui sapesse del suo problema, era lì pronto a darti consigli su come affrontare i momenti negativi che negli ultimi tempi affliggono un po’ tutti noi.

Fabrizio Matrone invece veniva spesso in studio a trovarci, praticamente abitava a meno di un km, ci scambiavamo dischi, insomma era una di quelle amicizie con le quali eravamo in buona sintonia. Grazie a lui abbiamo conosciuto Pier, con il quale abbiamo lavorato in molti dei suoi progetti video. Tra l’altro il suo ultimo lavoro, “Janvier”, del quale abbiamo curato la colonna sonora insieme a Fabrizio (Matter) ed Alex Gámez (Asférico – Störung), è stato selezionato in molti festival di cortometraggi nazionali ed internazionali: New York, Parigi, Barcellona… Il corto ha ricevuto molti riconoscimenti, e si è conquistato anche il primo posto al festival “O’Curt” di Napoli.

Mi piacerebbe anche sapere se avete mai compreso il motivo per il quale avete suonato abbastanza poco in Italia. Per me rimane un mistero, potrei però provare ad affermare che non proponendo musica facilmente etichettabile… Vi chiedo altresì di cosa ne pensate della stampa italiana, visto che avete avuto spesso a che fare con quella straniera, giusto per capire le differenze, se ce ne sono secondo voi.

Lino Monaco: Diciamo che in passato suonavamo di più rispetto ad oggi, sia in Italia che all’estero. Attualmente giriamo di meno, ma le poche date che facciamo, o che accettiamo di fare, sono sempre in contesti interessanti. Si, forse è anche la difficoltà a definire il nostro suono, troppo poco techno per quei circuiti e troppo techno per i circuiti off, ma non sappiamo spiegarcelo. La stampa italiana, al pari di quella estera, sia cartacea sia web, ci ha sempre trattato bene. Qualcuno forse avrebbe potuto fare uno sforzo in più e dedicarci maggiore spazio e non lo ha fatto, ma in queste dinamiche noi entriamo poco, del resto a noi piace più fare musica che pubbliche relazioni.

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Ditemi del rapporto che avete coi Dadub, e delle band che seguite e più vi interessano…

Lino Monaco: Abbiamo conosciuto artisticamente i Dadub grazie a Paolo Picone della A Quiet Bump, poi successivamente ci siamo incontrati di persona durante il festival Flussi. Ritornarono ad Avellino per suonare ad un party privato, poi Gio e Daniele decisero di passare da noi per un paio di giorni. Mangiammo panuozzi e suonammo tutto il tempo che si fermarono. Da quella sessione è nata la traccia “Kykeon”, uscita su una delle loro ultime produzioni. Sarebbe dovuta uscire anche una seconda traccia nel nostro ep annunciato da Sonuos, ma sfortunatamente la release sta subendo dei ritardi. Intanto, essendo loro specializzati anche in mastering, cureranno questo aspetto per il nostro nuovo lavoro su Semantica.

Un’altra collaborazione in cantiere è quella con Gianclaudio H. Moniri (Plaster, Kaeba), sia lui, sia Matter sono le realtà con le quali più comunichiamo, e che secondo i nostri gusti più ci rispecchiano. Ma in Italia c’è un panorama in fermento, e bisogna riconoscere che ormai c’è tanta gente davvero in gamba e che stimiamo moltissimo: Neel, Donato Dozzy per esempio hanno un suono personalissimo, e rappresentano la punta di un iceberg che sta facendo parlare molto di sé al di fuori dei nostri confini.

Domanda da un milione di dollari: secondo voi come e quanto possono ancora evolvere le tecnologie legate alla musica?

Nicola Buono: L’avvento del digitale, specie nel primo periodo, ha cambiato radicalmente l’approccio a far musica tramite sistemi evoluti. Ha il pregio di aver permesso a chiunque di avvicinarsi alla composizione, oltre al fatto di aver agevolato dei processi che prima richiedevano tempo e grossi investimenti. Negli ultimi anni si è vista invece una involuzione negli strumenti, e quindi nelle sonorità dei dischi; si ricerca di nuovo l’analogico, l’approccio “umano”, un esempio sono i sistemi modulari che per decenni erano scomparsi dagli studi e mezzi di informazione. Questo forse perché ci si è resi conto che per avere tutto “in the box” bisognava pagare un dazio, che era quello del suono, e in alcuni casi dell’emozione. Siamo interessati a vedere cosa succederà in un prossimo futuro, magari riusciranno ad accorciare questo gap. È una nostra opinione personale di come desideriamo ascoltare il suono, perché ci sono generi che necessitano di tecnologie evolute e che si sposano alla perfezione con le sonorità prodotte. Ad ogni modo la possibile evoluzione dei sistemi è al passo con tutte le nuove tecnologie wi-fi, per cui risulta prevedibile a tutti quali possano essere le nuove frontiere. L’uomo, oltre a scoprire sempre nuove cose, risulta sempre più prevedibile, per dirla alla Philip K. Dick siamo insomma diventati tutti più “precog”.

A distanza di anni, quali musicisti/band rimangono ancora per voi dei modelli musicali di riferimento?

Lino Monaco: È una domanda un po’ difficile questa. Diciamo che gli artisti che ascoltiamo hanno sempre lasciato una traccia nei nostri gusti personali, e in tutta onestà non abbiamo mai fatto classifiche. Forse il nostro ideale di riferimento sono i Coil, che negli anni si sono sempre saputi reinventare non scadendo mai nelle banalità.

Parlateci dei progetti futuri, se ne avete già in cantiere.

Lino Monaco: Alcuni già li abbiamo svelati in una tua domanda precedente, ma altri sono in cantiere. D’altronde la musica per noi è un’esigenza primaria, come mangiare e dormire. Difficilmente passa qualche giorno che non ci si vede in studio per fare cose, ormai da circa vent’anni.