Vittorino Curci: provvisori esercizi di immaginazione
Sassofonista, pittore, poeta, agitatore culturale, pensatore.
Vittorino Curci è figura centrale, seppure schiva e volutamente defilata, della musica creativa italiana e dell’arte non allineata in generale. Membro, con Marco Colonna, Gianni Console e Francesco Massaro, del Noci Saxophone Pool, che ha pubblicato un ottimo disco a fine 2021, Curci è personalità multidimensionale, che sa l’arte del prendere la parola senza incappare nelle trappole della retorica, disseminate ovunque da chi è abituato alle cose come sembrano, per usare una sua immagine.
Come accade che un luogo ai margini dell’impero, come Noci, finisca sulla mappa della musica di ricerca in Italia e non solo?
Vittorino Curci: Per caso e per volontà insieme, come spesso accade nella vita. Nella seconda metà degli anni Ottanta ascoltavo molta musica improvvisata grazie a Radio3 e a Pasquale Santoli che ogni pomeriggio, dal lunedì al venerdì, conduceva “Un certo discorso”. In quella trasmissione ascoltai tra gli altri i vari Schiano, Schiaffini, Tommaso, Colombo, Salis. Tra loro c’era anche Pino Minafra, che era pugliese come me, di Ruvo di Puglia. Lo contattai e diventammo subito amici. Cominciammo a fare delle cose insieme. Ricordo dei concerti-reading molto belli, in vari posti della Puglia, insieme con Peter Kowald e Marcello Magliocchi. L’opportunità di fare qualcosa di più grande ci fu offerta da Nicola Putignano, un giovane parlamentare socialista eletto nel 1987 (fu il più giovane senatore di quella legislatura) che, per un suo prestigio personale e per lasciare anche un segno tangibile della sua presenza nel territorio, mi chiese di realizzare qui a Noci una grande manifestazione culturale. Il famoso festival di Noci nacque così. Era il 1989. E l’avventura, sia pure con un paio di interruzioni, durò al 2000.
Una domanda della quale sospetto già la risposta: nasce prima il Curci poeta, il Curci pittore, il Curci sassofonista o il Curci agitatore culturale?
Prima il pittore. Già a quattro-cinque anni amavo disegnare e dipingere. Cosa che faccio ancora oggi quasi tutti i giorni. La mia formazione culturale è essenzialmente pittorica. Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti a Roma. Anni bellissimi. In quel periodo giravo per tutte le gallerie, ebbi modo di conoscere e di stringere amicizia con diversi artisti. Poi ci furono anche le mie prime mostre, a Roma e a Milano. Nel frattempo cresceva la passione per la poesia.
Per quanto riguardo la musica, invece, cominciai a suonare la chitarra durante l’adolescenza. Il sassofono è venuto dopo. Coltrane, specialmente quello dell’ultimo periodo, mi era entrato nel sangue. E con lui Shepp, Ayler, Dolphy, Pharoah Sanders, Marion Brown e tanti altri.
Il fatto di essere stato anche un agitatore culturale, quello, diciamo, è dipeso molto dal mio carattere. Sono un eterno irrequieto. Da giovane rompevo le scatole a tutti per organizzare cose interessanti: presentazioni di libri, mostre, concerti, rassegne di cinema. Ho sempre molte idee per la testa. Più di quelle che poi, effettivamente, riesco a realizzare.
Come nasce l’idea di questo disco del Noci Saxophone Pool, come ha preso vita il progetto e come avete lavorato in fase di registrazione?
Il gruppo esiste da diversi anni. L’idea iniziale era quella di un trio di sassofoni che di volta in volta avrebbe ospitato un quarto musicista. Dopo aver suonato con Marco Colonna il trio è diventato un quartetto fisso. Non poteva essere diversamente. Marco, lo sanno tutti, è un grandissimo musicista.
Il disco è stato prodotto in modo professionale. Abbiamo registrato in situazioni diverse spesso difficili, a causa del Covid, ma facendoci guidare sempre dalla musica stessa. A volta basta un suono per portare la composizione in una direzione impensata. È proprio questo il bello della musica improvvisata, della composizione istantanea.
Un fatto curioso è che il nome del gruppo è stato proposto da Francesco Massaro che è di Castellaneta. A me è piaciuto molto da subito perché “Pool” significa anche “piscina” e Noci in passato era famosa per essere stata il primo paese in Puglia, nel 1948, a dotarsi di una piscina comunale.
Ad un ascolto pomeridiano una volta mi è capitato di dimenticarmi che avevo il cd su e mi sono convinto di avere un nuovo vicino che stava praticando strumento: come tentativi di un mondo a due passi da qua, misterioso e raggiungibile.
Dici una cosa bellissima. In fondo è questo che dovrebbe essere la musica: uno smarrimento iniziale che attraverso un esercizio, una pratica, fa pensare a qualcosa di nascente per cui ciò che è vicino improvvisamente ti sembra lontano, addirittura “misterioso e raggiungibile”. La musica (l’arte in generale) è sempre qualcosa che indica ma non tocca fisicamente le cose, ce le fa immaginare. E l’immaginazione è una delle facoltà più potenti a disposizione degli esseri umani. Senza immaginazione, non solo l’arte, ma anche la scienza non esisterebbe.
Condividendo con te il vizio della poesia, so che chiedere di spiegare dei versi è peccato mortale ma so anche che siamo mortali e peccatori, e dunque: a chi ti rivolgi quando dici “Sono abituati alle cose come sembrano / La bellezza non tracima […] / è soltanto un nome”?
Il titolo della poesia è “Celicoli sfrattati”. Siamo noi, gli artisti di questo tempo devastato e di “passioni tristi”, i celicoli sfrattati, costretti a vivere in un mondo in cui anche la potenza salvifica della bellezza non conta più nulla, non riesce a muovere le coscienze. Chi non è minimamente toccato dall’arte vive in un mondo immobile e perciò falso perché la vita è trasformazione continua. Quindi coloro che “sono abituati alle cose come sembrano” sono i veri nemici dell’arte. Non c’è nulla che li scuote. Per loro la bellezza è una parola che non significa nulla.
“Siamo impauriti e muti”: suoniamo e parliamo da una distanza e non può essere altrimenti? Cristina Annino scriveva “Premettendo che è sempre doloroso impalare l’anima in un discorso, scrivere un diario, lettere, versare iride nella tinozza di un colloquio”.
Sì, “siamo impauriti e muti”, ma siamo anche “come feti che stanno per rinascere” (è questo l’ultimo verso della poesia). Insomma, i celicoli sfrattati non si arrendono mai. Continuano a combattere per le cose in cui credono. E se qualcuno pensa che il mondo di oggi possa risolversi tutto nel dominio tecnica e fare a meno dell’arte si sbaglia di grosso. L’agonia delle religioni è sotto gli occhi di tutti. La forza spirituale dell’arte è l’ultima grande risorsa a disposizione dell’uomo.
Sono ovviamente d’accordo con quanto dice Cristina Annino, una poetessa che ho sempre stimato e che purtroppo non ha avuto in vita i riconoscimenti che meritava.
Mi racconti il tuo percorso di ascoltatore, prima che di musicista? Epifanie, dischi fondamentali, il primo ricordo musicale?
I primi, lontanissimi, ricordi, da bambino, sono legati alla radio. Le canzoni italiane degli anni Cinquanta mi fanno ancora molta tenerezza. Poi con gli anni Sessanta cambiò veramente la musica. Per me ebbero grande importanza i cantautori: tra gli italiani, soprattutto Tenco, De André e Jannacci. Tra gli stranieri, invece, Brassens, Brel, Dylan, Coen, Cat Stevens, Crosby, Stills, Nash & Young… In seguito vennero i Pink Floyd, i Gentle Giant, i Led Zeppelin, i King Crimson (uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stato suonare con Keith Tippett nella Meridiana Multijazz Orchestra che mettemmo insieme Minafra, Ottaviano, Pisani e io più o meno vent’anni fa). Ma, ritornando alla mia giovinezza, i gruppi che mi aprirono veramente la mente furono i Weather Report e i Soft Machine. Furono loro a indirizzarmi verso il jazz e a farmi scoprire un mondo davvero straordinario.
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Non molti nuovi ascolti, in verità. Innanzitutto, un disco che mi accompagna da moltissimi anni: The Piano Music di Schoenberg nell’esecuzione di Maurizio Pollini. Poi diversi dischi di Daniel Carter, un musicista che definire “poetico” non mi sembra esagerato. Tra le cose più recenti: Skins, l’ultimo lavoro in solo di Roberto Ottaviano e Something There, un live registrato lo scorso anno al festival di Salonicco dal mio grande amico Sakis Papadimitriou.
Come in un altro spigolo d’Italia, in alto a destra, il Friuli, la Puglia è terra molto fertile per la musica creativa: da cosa dipende secondo il tuo (privilegiato?) punto di vista?
È vero. In Friuli la situazione è molto interessante. Credo che lì sia stato importante il lavoro che hanno fatto Giovanni Maier e Zlatko Kaučič con l’Orchestra Senza Confini. Qui da noi invece la musica improvvisata è stata coltivata moltissimo sin dagli anni Settanta grazie a musicisti come Magliocchi, Ottaviano, Lenoci, fino al Collettivo Sub-Ardente in cui si sono incontrati musicisti di almeno due generazioni: Walter Forestiere, Giuseppe Pascucci, Adolfo La Volpe, Giovanni Cristino, Francesco Massaro, Livio Bartolo, Gianni e Donato Console, Mariasole De Pascali, Marialuisa Capurso, Marta Gadaleta, Giacomo Eramo, Gaetano Corallo, Antonio Valente, Antonella Chionna, Giancarlo Pirro, Gianni Vancheri, Michele Ciccimarra e altri ancora che in questo momento non ricordo e ai quali, ovviamente, chiedo scusa perché meritano tutti di essere menzionati. Insomma, da queste parti, con mia grande gioia, la situazione è molto viva.
Ti chiedo un ricordo di Gianni Lenoci.
Gianni per me stato un grande amico e perciò mi manca moltissimo. Mi mancano i nostri incontri, le nostre lunghe e appassionate discussioni. Quando ci incontravamo parlavamo per sei-sette ore di fila, e non solo di musica, ma anche di arti visive, di filosofia, di cinema. Gianni è stato un vero maestro. Quando andavo a trovarlo al Conservatorio di Monopoli mi piaceva molto il rapporto che instaurava con gli allievi. Era ben consapevole che non tutti erano lì per spiccare il volo nel cielo della sperimentazione e della ricerca. Molti volevano soltanto prendere un titolo che facesse punteggio nei concorsi, altri per imparare un mestiere e quindi erano lì per chiedergli consigli pratici: i pattern su cui esercitarsi, le scale da suonare su determinati accordi, cose del genere, e lui li accontentava. Ma l’artista Gianni Lenoci pochi lo seguivano veramente ed erano i suoi allievi prediletti con quali amava moltissimo suonare. Gianni è stato un vero maestro e, lo dico con dolore, un maestro insostituibile.
Ascoltando il disco a me sono venuti in mente il Rova, Braxton, Steve Lacy: ci siamo? Inoltre mi è riaffiorata alla mente una poesia (non tradotta ufficialmente in italiano) del poeta norvegese Rolf Jacobsen, che dice “L’epoca delle sinfonie è finita”.
Sì, i riferimenti sono quelli, non solo per me, ma anche, sono sicuro, per gli altri componenti del Noci Saxophone Pool. For Alto di Braxton è uno dei dischi della mia vita. Di Lacy, neanche a parlarne: sono grato alla vita per aver avuto la fortuna di suonare con lui un paio di volte.
Per chiudere: se dovessi descrivere tu il vostro disco, tu che hai una lunga frequentazione con la musica e con la parola, cosa diresti? Partendo dal presupposto che si emettono suoni proprio perché ci sono cose che non si possono dire o che ci si può provare solo attraverso una ferita, come scriveva Cristina Annino nei versi che ti dicevo prima.
Qualcuno ha detto che è un disco a metà strada tra improvvisazione e musica contemporanea. Lo penso anch’io. È un disco che interroga continuamente il suono e la sua possibilità. Nei vari brani aleggia qualcosa di arcaico. Per essere più preciso: la ricerca di un punto sorgivo (l’archè. appunto, dei greci) da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna. Da questo punto di vista è un disco che può creare uno spaesamento perché rimette tutto in discussione, anche l’idea stessa di musica. A me fa pensare a un frammento di Eraclito che dice: “Come potrebbe uno nascondersi a ciò che non tramonta mai?”. È, chiaramente, una domanda retorica. La domanda vera per noi che suoniamo è: può la musica fare a meno della verità? Forse non c’è una risposta a questa domanda. Anzi, sono sicuro che è una domanda che resterà sempre senza risposta. Tuttavia dobbiamo porcela continuamente per ritrovarci soli e disarmati davanti al nulla, davanti al mistero della vita. Un altro bellissimo frammento di Eraclito dice: “L’armonia nascosta vale più di quella che appare”.