VIOLENCE, Human Dust To Fertilize The Impotent Garden
Non stupisce che uno come Olin Caprison, a.k.a. Violence, sia finito tra le mani della newyorkese Purple Tape Pedigree (delle cui offensive di decostruzione musicale in ottica biopolitica si è parlato qui). Il multistrumentista/artista visuale di Baltimora sembrerebbe impegnato in una sorta di ridefinizione sincretica di diverse unità (qualcuno direbbe “meme”) proprie di questo o quel genere, depurandole dai significati solitamente a loro associati e ricostruendole in una forma con la quale esprimere un discorso che sappia tenere insieme i frammenti di un’identità che mal si inquadra in schemi e stereotipi identitari/culturali e che subisce una violenza normalizzatrice. «Memories that don’t fit. Things you say don’t mix. These circles won’t square», canta a un certo punto Violence, e più del mio sproloquio vale a mo’ di esempio il grime modificato geneticamente di “I Wanna Be Your Dog”, depurato dai sottesi cliché machisti e usato per esplorare temi quali desiderio, violenza e sessualità non-normata. Il disco di Violence diventa così opera di giustapposizione tra hip-hop “industrializzato” ed elettronica destrutturata, tra rotondità rhythm’n’blues e slanci decorticanti di power electronics, in un arco di riferimenti che può andare dai The Internet a Prurient. Human Dust To Fertilize The Impotent Garden sembra percorso da una sotterranea sensibilità pop, seppur contraddittoria e trasfigurata, e da una non indifferente foga espressiva; cosa che sopperisce, anche se non in toto, a quei momenti in cui il filo logico tra i diversi segmenti del lavoro non appare così evidente. L’impressione è quella di avere a che fare più con un cantiere aperto che con un’opera definita, ma le fondamenta sembrano decisamente solide.