Villette Sonique, 24/5/2015
Parigi, Parc de la Villette, Grande Halle.
Il Parc de la Villette non è un semplice parco urbano, né un parco divertimenti. È un luogo magico, bizzarro, spunta come un fungo raro in un angolo della città altrimenti piatto e privo di attrattive. Uno squarcio di Parigi dove la dimensione pubblica e quella privata perdono una linea di demarcazione, dove la vita quotidiana dei residenti si intreccia con l’esclusività di numerosi eventi che arricchiscono la proposta culturale, dalla Cité des science et de l’industrie alla Philharmonie, fino al celebre Zénith.
In mezzo al pattern rosso delle Folies e delle strutture espositive con quel gusto un po’ “Ritorno al Futuro” anni Ottanta, la Grande Halle ospita nell’ala della Red Bull Academy la serata portante della Villette Sonique, festival musicale esteso agli spazi aperti del parco con concerti e performances delle più varie.
Quatto nomi diversissimi per età, genere e background si avvicendano on stage, ricevendo una risposta sempre nuova da un pubblico che sembra mutare in numero e forma ad ogni intervallo, in un cambio d’abito improvviso.
Untold apre le danze, forse troppo presto. Giovane producer londinese, Jack Dunning ha una lunga esperienza come dj, attività che lui stesso definisce come “design e non arte”, dando già una chiave di lettura analitica del suo lavoro, poco empatica verso gli sviluppi multi-direzionali della scena elettronica inglese. Con i piedi affondati nella dubstep, Untold guarda lontano verso una techno dal linguaggio inedito, caotico e sperimentale, intrecciando tutte le strade percorribili in un unica direzione senza arrivo. Dopo un inizio nebuloso e trasognato, durante il quale le atmosfere marine dai synth leggeri ricordano qualche lavoro di Balam Acab, Untold scatena una creatività senza logica apparente, mettendo insieme pezzi in sequenza e senza una visione complessiva d’insieme. Il live è lungo, quasi sfinente nei continui arrangiamenti e salti repentini da un ritmo all’altro, dalla techno marziale alla trance: si sfoglia un catalogo di suoni con l’unico scopo di non fermare la folla. Senza dubbio Dunning sa quello che vuole e sa come ottenerlo, ma è fin troppo presto per sciogliere i muscoli. Sarebbe stata una visione poliedrica e multicolore perfetta per la fine della serata.
Se i bravi maestri sanno bene come mantenere il silenzio in aula senza alzare la voce, Andy Stott è uno di loro. Dopo le metamorfosi di Untold, inizia un live organico, coerente, fluido. Da una partenza eterea ed enigmatica, che drizza le orecchie e i neuroni dei ragazzi, pronti a scatenarsi sotto la sua guida, Stott unisce le basi dilatate e i suoni rarefatti di Faith In Strangers, atmosfere luminose e solitarie, con fasci di ritmo che viaggiano graduali e lentissimi tra frenesie tribali che scatenano il pubblico e distensioni ambient che incantano e fanno viaggiare la mente verso isole lontane e sperdute. La freddezza di alcuni ritmi e il sapore sintetico della techno nuda sono avvolti da un dub morbido e caldo che smussa gli spigoli e riscalda anche i momenti di transizione più bui. Con un live lungo e cangiante nei chiaroscuri, Stott conduce in un viaggio tra caverne e spiagge bagnate dal sole, lontanissimo dalla fin troppo fredda primavera parigina.
La Grande Halle si svuota di tutti i ragazzi chiamati al dancefloor da Stott, lasciando spazio a un pubblico più esiguo e impaziente, ma Chris Carter, Cosey Fanni Tutti e Nik Colk Void non si fanno attendere. Dopo una collaborazione durante il Mute Festival alla Roundhouse di Londra, sigillata con Transverse nel 2012, Carter Tutti Void si presenta come un’entità unica in un live fin troppo breve ma saziante. Il minimalismo pulsante e la sintesi che hanno contraddistinto il lavoro di Chris & Cosey si consolidano di una combinazione sonora magnetica, dove le voci delle due donne si stagliano improvvise, lontane e inafferrabili. Le contaminazioni industrial viaggiano su un binario parallelo, toccando volumi alti, e compartimenti di distorsioni analogiche si intervallano a impulsi elettrici nitidi e chiari. I visuals che accompagnano il live sono perfetti nella geometria bicromatica così come nei movimenti lenti e ipnotici, creando quel gioco di parti audio-video equilibrato e armonico che dovrebbe essere l’esito di una qualsiasi ricerca artistica legata ai visuals, ma che di fatto non lo è quasi mai. Un live che si modella come un’esperienza che va oltre la musica e oltre il semplice ascolto. Ne avessimo tutti i giorni.
I Cabaret Voltaire sono qui ridotti alla glaciale presenza di Richard H. Kirk, che ha il suo set sul fondo del palco, forse intenzionalmente il più lontano possibile dal pubblico. Nonostante la distanza, la poliritmia che intreccia new wave, pop ed elettronica è coinvolgente anche per i semplici avventori. Kirk gioca con ritmi e suoni diversissimi, creando un mix lungo e vario, interrotto da bassi e frammenti di voci di spot televisivi inglesi e francesi. Sopra un’impronta dark industrial tradizionale Kirk accavalla synth, noise e qualche sprazzo di tastiera old school che fortunatamente non ha nulla di nostalgico, ma è solo un pezzo del puzzle schizofrenico.
Momenti di distorsioni harsh più cattive spazzano via il sorriso dal volto di chi sta ballando incurante di nomi e storia, ma la punizione dura troppo poco. Il ponte tra industrial ed elettronica Eighties crea uno strano effetto ludico che fa sembrare il live una festa, e gli schermi su cui scorrono immagini televisive random e incasinate dai colori acidi contribuiscono all’atmosfera. Quella che si sedimenta è una situazione a contrasto: nelle prime file ci sono gli ascoltatori immobili e ipnotizzati dal delirio di suoni e richiami, ma basta girarsi un attimo per vedere la sala stipata di gente che balla sfrenata come se fosse a un party anni Ottanta. Non è una novità, in effetti, ma stride talmente tanto la freddezza di Kirk, che chiude il live così come lo ha iniziato, senza nemmeno uno sguardo verso la folla, che fa quasi ridere.
Una serata completa e attuale nella proposta, mutevole sotto moltissimi aspetti e cangiante come il meraviglioso parco che la ospita, un set per un “Alice in Wonderland” contemporaneo, in cui ad ogni capitolo lo scenario, i colori e le musiche si trasformano (senza funghetti però).
Le foto sono © Philippe Levy.