Viaggio nelle viscere della terra – Le musiche dal mondo di Ariel Kalma
Approcciarsi alla musica dell’artista francese, di stanza in Australia da tempo, è operazione che richiede con tutta probabilità un trascorso di un certo tipo, poi spiegheremo meglio perché. Intanto va detto che, pure grazie all’italiana Black Sweat Records (Al Doum & The Faryds, Maurizio Abate, J.D. Emmanuel), ci è stata data la possibilità di conoscere meglio l’opera di un avventuriero che di storie da raccontare ne ha parecchie, così l’intervista più sotto può venire in nostro soccorso.
Dicevamo del punto di vista dell’ascoltatore: potremmo provare ad azzardare una mappa di quello che si vede in rada prima di sbarcare sulle coste dell’isola deserta di monsieur Kalma. Con le orecchie corrotte dai nostri consumi potremmo facilmente affibbiare l’etichetta di New Age sul tutto e chiudere il discorso. Uccellini, flautini, sitar. Per un attimo, però, proviamo lo stesso a stilare un elenco-guida: Brian Jones in Marocco che si fonde con i Master Musicians Of Joujouka, George Harrison che se ne va a spasso per l’India, Ravi Shankar famoso come Dio, e in Italia ci sono stati gli Aktuala, Claudio Rocchi, e poi i Futuro Antico. È la suggestione delle cosiddette “musiche del mondo”, quelle che col tempo hanno preso i loro spazi in un mercato che prima era loro quasi precluso. La prendiamo “lunga” perché appunto si tratta di sonorità “lontane” per noi, e sono le stesse che, forse, devono avere affascinato un signore che un tempo faceva l’assistente tecnico negli studi di Pierre Schaeffer, e che a un dato momento della propria vita, dopo numerosi viaggi in giro per il mondo, ha deciso di lasciare l’Europa per stabilirsi nell’altra parte del mondo.
Affondo nella discografia.
Music is in my blood. I love to mix various instruments and elements of different cultures in my compositions. For me music is a language without boundaries, a meeting of souls, melodies and rhythms.
(fonte)
Ariel Kalma ha debuttato agli inizi degli anni Settanta: a conti fatti non ci sono state poi tante pubblicazioni ufficiali a suo nome e rimane arduo mettere ordine in un archivio di sicuro pieno zeppo di registrazioni. L’esordio ufficiale avviene più precisamente nel 1975, col disco omonimo uscito per la sua Astral Muse Production. Incomincia poi a frequentare Richard Tinti (ricercatore di suoni, viaggiatore delle foreste tropicali e field recordIST quasi ante litteram) e con lui fa uscire la prima versione di “Osmose” (è il 1978). Passano un paio d’anni, stanno per incominciare i luccicanti Ottanta, e vede la luce l’lp doppio Interfrequence, per i tipi della Editions Montparnasse 2000, con dentro “radio and T.V., musical illustrations, film music”. A stretto giro di posta arrivano Musique Pour Le Rêve Et L’Amour e Open Like A Flute, entrambi in cassetta e per la sua etichetta personale. A metà Ottanta esce un nastro autoprodotto, Bindu, e il decennio si chiude con Serenity (per la tedesca Nightingale Records). Dopo quest’ultimo lavoro incomincia per lui un periodo piuttosto lungo di stand-by artistico, ma non mancano alcuni cd davvero carbonari come Flute For The Soul e My Sax, My Love. Il vero ritorno è in sordina, sono passati ormai una decina d’anni, e gli americani della Beta-Lactam Ring Records (numerose compilation all’attivo, e Nurse With Wound, Edward Ka-Spel, Nadja, tra i tanti pubblicati) riprendono per mano i master del debutto e lo nominano “Le Temps De Moisson”. Anche Osmose nel frattempo aveva ricevuto nuove attenzioni grazie alla statunitense consociata della Beta-Lactam, la BLUR, che l’aveva rimesso sul mercato in formato cd. Arriviamo quindi a un paio di anni fa, momento in cui ormai certi suoni sono tornati di moda grazie a numerose ristampe, dicevamo, e le motivazioni paiono essere principalmente due: una certa penuria di vere novità discografiche di peso, e soprattutto la voglia di rimettere in pista cose che hanno un loro perché storico. Ariel Kalma trova per esempio in Robert Aiki Aubrey Lowe (Lichens, 90 Day Men e collaborazioni con gli Om) una sorta di sparring-partner molto propositivo (alcuni album in “solo” ricordano da vicino i lavori del francese), e non è un caso che l’etichetta specializzata in suoni vaporosi, tra psichedelia ed elettronica di ricerca forse anche un tantino pretenziosa (vedi alla voce Holly Herndon), la Rvng Intl, si prenda la briga di mettere in pista la loro prima collaborazione, We Know Each Other Somehow/Sunshine Soup, fresca di stampa tra l’altro, che si aggiunge alla serie delle FRKWYS, arrivata alla dodicesima edizione (in passato c’erano state anche quelle tra Steve Gunn e Mike Cooper, bellissima, o quella a nome “Borden, Ferraro, Godin, Halo & Lopatin”). Detto che è curioso notare la grafica del disco, che a noi ha ricordato alcune copertine della Cramps (il font in particolare), l’album di sicuro non innova. Certifica però che il tempo non ha scalfito l’ispirazione, c’è anche un dvd accluso che testimonia dell’incontro e delle session, opera di un paio di film-maker, Misha Hollenbach e Johann Rashid. Anzi, col nuovo collaboratore sembra evaporata quella patina fané degli anni Duemila – la stessa Rnvg aveva provato a toglierla l’anno scorso con un’antologia, An Evolutionary Music (Original Recordings: 1972 – 1979) – e un nuovo periodo, si spera più fecondo, si apre per Ariel Kalma.
Tornando al nostro Paese, è interessante notare come la milanese Black Sweat Records si occupi di riproporre un paio di suoi lavori, Osmose e Open Like A Flute. Il primo vede una partenza fluttuante e vigorosa allo stesso tempo, come dice il titolo, “Saxman”: una stratificazione di sassofoni, uno degli strumenti preferiti di Kalma insieme a didgeridoo e sintetizzatori, che si fa sempre più ascensionale e, va da sé, efficace e dai toni sensuali. In “Forest Ballad” ci immergiamo nella foresta tropicale (quella del Borneo, per l’esattezza) che ospita gli uccelli registrati e campionati da Tinti, in “Planet Air” la melodia si fa ancora più eterea, mentre l’organo “chiesastico” di “Manege” pennella note che si intrecciano felici e si perdono nel finale dalle tinte cinematiche e dal retrogusto free. Chiude degnamente la più che aliena “Gongmo”. Nel recente Open Like A Flute (album più lungo) si continua a fare selezione tra le sue composizioni, e qui lo strumento principe è logicamente il flauto (si fa notare l’orientale, ça va sans dire, “Japanese Island”). Va subito detto che l’apertura di “Pagnifico” è qualcosa di difficilmente descrivibile, ma proviamo comunque a farlo: una lunga suite che richiede un tempo lungo per penetrare il mistero. Una volta forzata la porta, siete nell’armadio di Narnia e questo signore vi sta conducendo per mano in un viaggio magico. Il sassofono appare e scompare lasciandosi dietro linee liquide che sembrano scie di note. Questo percorso immaginario si conclude con il flauto in libertà che contraddistingue la torrenziale “Libra Moon”.
Introduzione all’intervista.
Per penetrare il mistero e sfondare qualche porta chiusa da tempo abbiamo raggiunto Ariel Kalma agli antipodi, per una chiacchierata ad ampio raggio. Possiamo dire di aver trovato un uomo posato che irradia pace. Niente a che vedere con fricchettoni bruciati al sole d’Oriente o rimasti di un’altra galassia. Questo signore è un musicista mistico, uomo in missione e sciamano. Parleremo con lui di nastri, canto Dhrupad, e incroci di storie in giro per le strade del mondo.
Emilio Mannari: Signor Kalma, la sua è stata un’incredibile avventura “sonica”, che lo ha visto saltare tra la “musique concrète”, certi sogni in Revox e una sorta di cura naturalistica. Com’è iniziato questo viaggio?
Ariel Kalma: Quando ero uno studente ho lavorato in un negozio di elettronica che vendeva registratori, allora ho sperimentato molto con un Revox che avevo acquistato da me. Registravo tutti i tipi di rumore, strumenti, barattoli, pentole, tutte le tipologie di suono, e li mettevo insieme. Ho imparato come creare echi, riverberi e delay sul Revox. Era come una sorta di terapia per me, perché potevo tradurre i rumori e la “spazzatura” che erano nella mia testa dentro qualcosa che esprimesse il mio stato mentale.
Emilio Mannari: Come è stato influenzato il suo metodo di lavoro dall’esperienza di tecnico del suono negli studios di Pierre Schaeffer?
Ariel Kalma: Beh, prima vorrei dire che ero un assistente-ingegnere al GRM, il Musical Research Group, parte dell’INA, l’Istituto Nazionale Dell’Audiovisivo in Francia. Cosa ho imparato lì? Che il mio metodo di lavoro era lo stesso, il missare insieme frammenti di suono. Si avevano risultati diversi, e la musica rifletteva la mentalità di ciascun compositore. Quello che era interessante per me era che diversi compositori avevano stili differenti, ma cercavano di esprimere ciò che era nella loro mente tramite un mix di vari elementi di suono ed effetti da creare. Per me c’era la mancanza di alcune emozioni. Era interessante, ma avevo bisogno di includere delle emozioni nella mia musica.
Emilio Mannari: Ho scavato parecchio nelle musiche indiane, specialmente sulle voci della musica carnatica. Mi parli del suo rapporto con i Dagar Brothers, del canto Dhrupad, e dell’India in generale.
Ariel Kalma: Nei primi anni Settanta, forse il ’71 o il ’72, andai a un concerto di un paio dei Dagar Brothers a Parigi, mi colpì veramente tanto e parlai con loro alla fine del live. Fu un’esperienza davvero profonda per me, incominciai ad ascoltare la musica classica indiana, incluso il Dhrupad, e questo mi aprì molto la mente. Più in avanti andai in India (nel 1975) e fui molto coinvolto nella musica, rimasi vicino alla casa del maestro Kumar Gandharva. Lui non era coinvolto nel Dhrupad, ma per suo tramite fui invitato a parecchi concerti e festival nel nord dell’India. E lì nel frattempo ho adorato ascoltare e incontrare cosi tanti straordinari e bei musicisti. Andai nel Kashmir dove rimasi in una casa-barca, da dove ascoltavo l’Orchestra Nazionale alla radio (era inverno e non avevo molto da fare) e facemmo molte jam session! Fu veramente incredibile, ho amato tanto questo modo di raccontare una storia musicale, che è ripetitivo, ma sempre con elementi nuovi, cosi ho usato quel metodo nella mia musica “moderna”. Quando poi tornai a Nuova Dehli vissi in una casa internazionale degli studenti dei Dagar Brothers, e partecipavo alle loro lezioni, fu molto bello, ho imparato tanto.
Posso dire sulla musica indiana, specialmente il Dhrupad, che è ciò che io chiamo la “verticalità”, l’improvvisazione su e giù sulle scale musicali. E la voglio paragonare a ciò che mi piace definire “cambiamento orizzontale” della musica dell’Ovest. Quel modo di suonare musica “verticale” favorisce una profonda esplorazione, la meditazione e l’improvvisazione in un viaggio interiore. La musica “orizzontale” per me va dentro diversi stati della mente o emozioni che possiamo descrivere come un “viaggio sulla terra”, e lì ci sono molte differenze tra il cambio di accordi e ciò che io definisco il “modo verticale di cantare”, come nel Dhrupad.
Anche la musica indiana è basata sulla quinta perfetta e ventidue intervalli sull’ottava, mentre la musica occidentale è basata su una scala di tastiera “temperata” e solo dodici intervalli, quindi “contiene armonie” ma non è basata molto sulle armoniche. Per me gli armonici e le accordature sono veramente importanti perché essi provocano delle risonanze “interne”. Certo, io suono tastiere moderne, generalmente suono in “quinta”, ma c’è un certo rispetto verso l’importanza della verticalità nella mia musica.
Emilio Mannari: La New Age è diventata uno strano mondo. Ho sempre pensato che ci sono stati artisti che hanno portato avanti trend e gusti musicali, voglio dire, lei è un compositore che ha anticipato questa “new wave” della musica meditativa. Quali artisti ascolta con piacere in questo campo?
Ariel Kalma: Questa è una domanda curiosa. Cosa è la New Age, e cosa sono i vecchi cliché? Mi piace ascoltare ogni tipo di musica che mi fa fare un viaggio interiore, o un viaggio nella natura, o che racconta una storia, mi piacciono tutti i tipi di musica che suonano gradevoli, che non descrivono i processi esterni che stanno dentro la mente. Per esempio è difficile per me ascoltare musica depressiva; mi piace il blues, quello di New Orleans, che ha gioia è tristezza allo stesso tempo. Non posso più ascoltare con facilità canzoni sulle balene o mantra di poco valore, o noiose drum machine che fanno sempre la stessa cosa. Quello che ascolto dipende molto dall’umore nel quale sono al momento; qualche volta ascolto Enya, i Tangerine Dream o Jean Michel Jarre, qualche altra sento dei mix moderni di chill out perché mescolano interessanti elementi della vita contemporanea, qualche volta la musica classica Indiana o sempre la classica Occidentale. Amo la musica di Terry Riley, ma non l’ascolto tanto perché siamo troppo simili, e mi preoccupa essere influenzato, preferisco restare nella mia ispirazione. Ascolto ancora Peter Michael Hamel, ma è New Age? No. È “eternal music”, che era forse fatta cinquant’anni fa, ma tu puoi ancora ascoltarla fra cento anni, o nel futuro!
Maurizio Inchingoli: Ci parla della sua collaborazione con Robert Aiki Aubrey Lowe, in We Know Each Other Somehow – Sunshine Soup? Immagino che ci siano molte cose in comune con questo musicista americano, conosciuto come Lichens, e che proviene dai 90 Day Men e ha collaborato con gli Om.
Ariel Kalma: Sì! Per primo voglio dire che lui suona sintetizzatori modulari, ed anche io li ho suonati negli anni Settanta. Comprendo le possibilità e quello che puoi fare con tutti questi suoni. C’è affinità, certo, che viene dal punto di vista degli strumenti usati, ma anche Robert ha un approccio filosofico alla vita che va verso la stessa direzione che ho io, e verso quello che sviluppo. C’è molto più di un’affinità nei nostri approcci verso la spiritualità, il silenzio e i suoni delle musiche.
Maurizio Inchingoli: Com’è nata l’idea di ripubblicare “Osmose” prima, e successivamente “Open Like A Flute” per l’italiana Black Sweat Records?
Ariel Kalma: Sì, avevo parecchie reissue negli anni, ma ad un certo punto “Osmose” era libero ed avevo parecchie offerte. Mi piace la Black Sweat perché questo ragazzo, Dome, è un musicista e sembra molto determinato, cosi ho deciso di andare da loro ed abbiamo fatto uscire “Osmose”, che ha venduto bene, e poi abbiamo fatto uscire “Open Like A Flute” in Italia, e ripubblicheremo l’lp doppio “Musique Pour Le Rêve Et L’Amour”, perché ho ritrovato i nastri originali degli anni Settanta. Le abbiamo rimasterizzate, e suonano veramente bene. Vorremmo utilizzare per la copertina la bellissima cover originale e l’idea mi piace molto. Uscirà nell’autunno di quest’anno.
Maurizio Inchingoli:: Conosce artisti italiani come Lino Capra Vaccina, e un disco chiamato “Prati Bagnati Del Monte Analogo” del duo Lovisoni/Messina? Li ha mai ascoltati? Io ci vedo delle somiglianze con la sua musica.
Ariel Kalma: Ho ascoltato “Voce In XY” dal suo album Antico Adagio e sì, era bella, acusticamente suonava veramente in modo eccellente, quegli echi, quei movimenti ripetitivi mi piacciono davvero tanto. Di Lovisoni / Messina ho trovato il mix un po’ pallido, è troppo “diluito” per me.
Emilio Mannari: Com’è vivere nell’immenso continente australiano? Sente nuove energie crescere dalla madre terra?
Ariel Kalma: Sì, l’Australia è veramente grande e vitale, io vivo in una località immersa nel verde, vicino ad una foresta pluviale, ed è molto bello. Avverto tanta energia provenire dalla terra, ci sono un sacco di uccelli attorno a me, un piccolo fiumicello, e queste cose mi danno molto vigore. Sento che mi danno quella forza necessaria per esplorare le mie nuove musiche e anche per tornare indietro tra le vecchie cassette, ne ho ricevute alcune dalla Francia dopo quaranta anni, dove queste erano state immagazzinate. Ora sto esplorando tutti i miei vecchi archivi e farò un sacco di cose vecchie-nuove (ride, ndr). Musica da pubblicare quindi ce n’è, sì!
Emilio Mannari: Domanda di rito: progetti, idee?
Sì, un sacco di progetti, un sacco di idee, sempre. Archivio le mie vecchie cassette, pubblico quei vecchi archivi, faccio nuova musica, e certo, continuo pure a creare compilation per la nostra world-beat label, la Music Mosaic. Il prossimo anno suonerò con Robert Aiki Aubrey Lowe in Europa, e se non lo farò in ogni caso ho nuovi, potenti strumenti, e posso suonare da qualunque parte nel mondo in “solo” (o con altra gente). Forse verrò anche in Italia, chi può dirlo? Di idee ne ho tante, ho un sacco di progetti musicali non terminati che mi piacerebbe poter esplorare prima che finisca il mio tempo, ma non so quanto riuscirò a fare perché sono sempre molto produttivo, ho tante idee, quindi staremo a vedere!