VESSEL, Queen Of Golden Dogs
Ha fatto discutere parecchio l’ultimo di Vessel, inserito in molte delle amate/odiate liste di fine anno per la sua originalità e la sua capacità di portare nuova linfa a un ambito, quello della deconstructed club music, sempre a rischio avvizzimento. Il terzo lp di Sebastian Gainsborough da Bristol rappresenta – lo dicono le stesse note che lo accompagnano – una cesura radicale rispetto a quanto da lui fatto in precedenza: Queen Of Golden Dogs suona profondamente diverso dal suo predecessore, brutale e magnifico, come pure dall’esordio, entrambi sempre su etichetta Tri Angle e molto peculiari, pur se frutto di una manipolazione di linguaggi abbastanza consueti e riconoscibili. Stavolta, invece, Vessel mescola le tinte del paesaggio fino a renderne incerta l’appartenenza: più di qualcuno ha voluto creare un trait d’union fra lui, Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e James Ferraro, due che, bene o male, hanno dettato l’agenda musicale del decennio in corso, accomunati nei loro ultimi dischi da una vena surrealista e al contempo neofolklorica, oltre che dall’uso di certi strumenti, in primis il clavicembalo midi. Si è parlato di colonne sonore per un Medioevo Digitale, con la volontà di legare le invenzioni di Lopatin, Ferraro e quindi Gainsborough alla crisi in atto della razionalità e del pensiero illuminista: qualora, come si dovrebbe fare in questa sede, volessimo partire da ciò che stiamo ascoltando, più giusto semmai sarebbe parlare di Neobarocco, visto che il clavicembalo comincia a diffondersi nel Cinquecento per affermarsi definitivamente nel secolo successivo. Comunque sia, la questione appare un po’ più intricata.
Una buona chiave di lettura di Queen Of Golden Dogs è fornita dalla sua copertina, su cui campeggia un dipinto di Remedios Varo intitolato “Les Feuilles Mortes”: la surrealista spagnola, alla quale Vessel dichiara di essersi ispirato (e alla quale ha dedicato la settima traccia, costruita sulle ardite polifonie vocali della cantante Olivia Chaney), ha dipinto un mondo multidimensionale la cui interpretazione richiede uno sforzo che vada ben oltre il semplice gesto del guardare. Come la pittura della Varo, anche quest’album è fatto di prospettive e di scenari che si compenetrano in modo così irregolare da richiamare quel senso di non-correttezza proprio del concetto di weird come lo ha definito Mark Fisher nel suo saggio del 2016 (“The Weird And The Eerie”, pubblicato in Italia lo scorso anno da Minimum Fax).
L’influenza più evidente dal punto di vista strettamente sonoro viene dettata dalla musica da camera, sulla scorta, pare, dell’attuale relazione di Sebastian con una violinista; fra le ispirazioni letterarie invece troviamo Fernando Pessoa, scrittore nella cui produzione la molteplicità dell’esperienza umana e del reale giocano un ruolo fondamentale, e Maggie Nelson (a lei sono dedicate le convulsioni della terza traccia), autrice de “Gli Argonauti”, memoir/saggio incentrato sulla fluidità sessuale.
Tenere insieme tali e tante componenti così eterogenee richiedeva un miracolo, cosa che in definitiva non è avvenuta. Un progetto concettualmente così ardito è rimasto una macedonia appena onesta – e in molti punti di difficile digestione – a base di clavicembali midi, suggestioni mediorientali, lacerti di club music e attitudine al noise.