Verdena, D’Innocenzo, America Latina: intese non verbali

In occasione della recente uscita nei cinema di “Dostoevskij” dei fratelli D’Innocenzo torniamo sul progetto precedente dei gemelli romani, “America Latina”, provando a mettere in relazione le sue immagini e il suo importante universo sonoro. Il film, uscito nelle sale nel gennaio del 2022 dopo la partecipazione in concorso alla 78esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, vanta infatti una colonna sonora d’eccezione firmata dai Verdena.

Fabio e Damiano D’Innocenzo sono registi che posseggono una qualifica che sta diventando sempre più rara in Italia, quella di veri e propri autori. L’autorialità nei loro primi due film, “La terra dell’abbastanza” (2018) e “Favolacce” (2020), consiste non solo nella cifra stilistica e nei loro messaggi personali, ma anche nella volontà, che contraddistingue i registi più puri, di non volersi adagiare su schemi stantii ma puntare a sorprendere il pubblico e anche se stessi, film dopo film. I Verdena parimenti hanno cercato sempre di essere liberi, conciliando a fatica un’attitudine indie col volere delle major. Non a caso, prima di questa collaborazione coi due registi, la band proveniva da un lungo silenzio in studio, interrotto solo dall’uscita di un (folle e meraviglioso) ep di reciproche cover assieme a Iosonouncane. Anche nel caso dei vari progetti paralleli intrapresi nel corso del tempo – uno su tutti gli I Hate My Village – l’obiettivo dei componenti è stato sempre quello di far parlare la musica prima di qualsiasi altro aspetto mediatico e non. Il risultato del lavoro per “America Latina”, dunque, non poteva essere che qualcosa senza fronzoli e banalità, ma con l’obbiettivo di spiazzare lo spettatore, invitandolo a mettersi in gioco attivamente durante la visione. La colonna sonora dei Verdena è una vera e propria seconda voce all’interno del film, indispensabile per come dialoga con quella dei D’Innocenzo.

Già dall’incipit di “America Latina” si può dedurre che si sta per guardare un film che instillerà sensazioni contrastanti e punterà sull’effetto sorpresa come accadeva già nei precedenti “La terra dell’abbastanza” e soprattutto in “Favolacce”, due film che – pur basandosi su di una scrittura dei personaggi solida e su di una narrazione tutto sommato convenzionale – avevano anche i loro momenti (mai gratuiti) di rottura. Se però “La terra dell’abbastanza” iniziava con un dialogo tra due amici in un parcheggio che, masticando rumorosamente e giocherellando, introducevano allo spettatore le proprie vite e desideri, e “Favolacce” usufruiva di un narratore colto che legava le vicende al ritrovamento fortuito di un diario, in “America Latina” si parte senza dialoghi o voice-over e ci si affida al potere suggestivo delle immagini: una camera a mano tremolante che si sposta a velocità di automobile, inquadrando boschi dall’aspetto fiabesco quasi irreale seppur appartenenti alla periferia di Latina, fino a stabilizzarsi una volta giunta all’interno del recinto della villa-sogno del protagonista Massimo. Con un’intuizione che si situa tutta nel montaggio, uno stacco improvviso ci porta da Massimo, colto nell’esercizio della sua professione di dentista in uno studio caratterizzato da uno stile asettico. Lo spazio dell’inquadratura ritrae l’uomo di spalle e grande rilevanza assume una finestra che occupa la quasi totalità di una parete, illuminando la stanza di una luce quasi accecante. Questa luce rileva una separazione spaziale tra i personaggi di scena, Massimo e le sue assistenti, i cui corpi appaiono quasi in ombra e coperti sui volti da mascherine sanitarie, come fossero elementi di corredo. In un tempo totale di tre minuti siamo stati trasportati in un mondo connotato da una dimensione onirica di natura però fragile, come sottolineato dalla sopracitata camera a mano, per essere in seguito immediatamente spiazzati a livello visivo, con l’evidenza di un senso di solitudine e di distacco tra i personaggi che si riverbererà su quanto accadrà dopo: da un’apparente condizione di agio si disvelerà una sinistra realtà sotterranea, tale da mettere in crisi le certezze di Massimo e ogni tipo di rapporto umano instaurato fino a quel momento.

Questa prima intuizione iniziale non basterebbe da sola a trasmettere questo senso di smarrimento senza lo straordinario lavoro dei Verdena. Difatti la band accompagna il breve prologo con una melodia di pianoforte languida e dissonante (“Lullaby”) che, oltre a sottolineare la percezione di fragilità già citata, contribuisce in parte a generare anche uno strano sentimento di nostalgia. Questa sensazione inaspettata si potrebbe spiegare immaginando che questo prologo sia non l’introduzione di eventi che stanno per susseguirsi, ma la fragile testimonianza di un ricordo del protagonista prima di perdere ciò che ama, tale da spiegare il perché di questa malinconia. Questo è solo un esempio tra le molteplici situazioni in cui questo connubio immagine-suono è fonte di interrogativi e ipotesi che possono essere solo suggestioni, difficilmente la chiave di volta nella risoluzione di un puzzle. Di lì in poi il lavoro dei Verdena segue una traiettoria sempre più basata sulla frammentazione, coerente la decostruzione della vita di Massimo: la colonna sonora si basa soprattutto su due temi principali, “Brazil” e “Scintillatore”, che vengono progressivamente destrutturati e rimodulati in salse sempre più disorientanti. Questo percorso musicale sfiora diverse volte il noise rock, generando anche momenti di sperimentazione pura nel segno della musica concreta. All’interno di questo inferno musicale sono presenti a più riprese momenti di inaspettata quiete che, nell’economia del racconto, acquistano spesso valore in funzione della loro dissonanza con le immagini. Anche un motivetto fischiato o brevi accordi di chitarra generano un effetto perturbante nell’ascoltatore/spettatore in relazione alla scena cui sono correlati. I Verdena costruiscono così una “voce fuori campo” che accompagna ma molto spesso si pone in antitesi rispetto ad immagini – o le supera – che già in autonomia concorrono a porre rilevanti interrogativi su quanto stia accadendo. Questa collaborazione tra due orsi che incontrano tre orsi, così la etichetta lo stesso Fabio D’Innocenzo, che possono stare in una stanza anche unora e proferire in totale otto parole, ma si capiscono reciprocamente, rende quindi “America Latina” un esempio raro nel nostro cinema italiano. Un oggetto raro, perché di interessante nel rapporto tra i due progetti, cinematografico e musicale, è proprio la modalità d’intesa non verbale che, oltre a essersi prodotta tra registi e gruppo, si è riproposta con lo spettatore, giocando con le sue aspettative ma con modalità sempre rispettose, invitandolo a non restare passivo e a partecipare alla visione. Il meccanismo di base si fonda sull’impatto nella sfera percettiva prima ancora che logica, strumentalizzando sensazioni e fornendo pochissime informazioni, se non obliterandole del tutto. La vera forza del film non sta quindi in una perfezione espositiva che lo rende un monolito esente da difetti, ma in una simbiosi tra immagini e musica che riesce a trasmettere e sublimare l’insicurezza dei personaggi e della loro condizione. Si tratta quindi di cinema e musica che stimolano la riflessione non (solo) a partire dalla mente ma che fanno vivere le vicende sulla propria pelle e nella propria sfera sensoriale. L’effetto rende la storia di Massimo di sicuro più pervasiva e destinata a perdurare nella nostra memoria.