VEIL, A Circle In Stone
Invidio chi ascolta solo un genere specifico di musica. È un modo per avere un’identità, una sicurezza, delle gratificazioni, soprattutto di vivere una vita facile. Prendiamo quello che segue solo reggae e ska (e dub e dancehall): ecco che non si trova – come me – nel 2023 a scoprire il talento dell’inglese Oliver Ho, dj/producer techno che per vent’anni è stato su Blueprint, L.I.E.S. e chissà quante altre etichette prestigiose e che sta dietro a un progetto come Broken English Club, e dunque non si mangia le mani chiedendosi se non si è perso qualcosa e come cazzo farà a procurarsi i dischi vecchi.
“Veil” è uno dei tanti nomi dei tanti progetti di Oliver Ho, dato che lui è uno di quelli che vuole un “canale” distinto per ogni tipo di musica che fa, in questo caso direi colonne sonore. Nello specifico, questa volta, la colonna sonora di un documentario o di un videogioco con al centro un mondo ostile, scabro, desertificato e come logico indifferente alla sofferenza degli esseri che lo abitano e di cui sentiamo qualche vocalizzo pre-linguistico. Basta guardare il video di “Embryo” qui sotto per capire. Bisogna proprio figurarsi davanti un paesaggio primordiale e primitivo, immaginare di percorrerlo e non aspettarsi altro che di incontrare qualche animale affamato o qualche creatura pseudo-umana priva di compassione (insomma, uno di quei pianeti sconosciuti che nei film gli equipaggi stupidi delle navi spaziali provano a esplorare un po’, tanto cosa potrebbe mai andare male… Ridley Scott sto pensando a te). Del resto pare che Oliver si sia fatto ispirare da Stonehenge.
Qui c’è grande bravura nel servirsi di un’importante varietà di strumenti (fiati, corde, percussioni… più ovviamente tutto l’armamentario elettronico) senza accatastarli l’uno sull’altro, ma sfruttando e sviluppando al massimo per mezzo di una pesantissima manipolazione pochi suoni scelti di volta in volta come punto di partenza. La struttura, insomma, è minimalista, e tutto in qualche modo viene trasformato in un bordone stridente, eccettuati i colpi secchi e potenti delle percussioni, quando ci sono. E, tocca ripeterlo, le influenze andrebbero cercate nella musica per film e non in quella underground o alternativa, anche se i due mondi spesso dialogano: mi è venuto in mente il disco di Lustmord e Karin Park, ma ho fatto molta fatica a estrarlo dal mio subconscio, e quindi poi per associazione d’idee Kistvaen (una tomba del tardo neolitico non per caso) di Roly Porter.
Missione compiuta: classico disco che non comprerà nessuno, perché non c’è hype, non c’è copertura e forse in Italia non c’è proprio interesse, peccato perché ha valore.