Varvara Festival, 17-18-19-20/9/2015

Space Aliens From Outer Space

Torino, Cap10100.

… Varvara è un Festival, così si autodefinisce senza tanti giochi di parole l’evento che ha caratterizzato il mese di settembre torinese dopo il TODAYS di fine agosto, e possiamo confermarlo. La semplicità della frase sta tutta anche nel tranquillo ed accogliente locale, il Cap10100, situato nei pressi dello storico Circolo Canottieri affacciato sulle rive del Po. Il clima ha fatto la sua parte, quindi la figura spiritica di Barbara Belosel’skaja, evocata dall’organizzazione, ha potuto passare un pugno di notti senza troppi tormenti, nonostante il cambio di location in corsa (la prima edizione s’era tenuta lo scorso anno all’ex Cimitero di San Pietro In Vincoli).

Va precisato che siamo riusciti a partecipare soltanto a due delle serate in calendario. In quella di apertura, tra gli altri, c’erano stati i Larsen di Fabrizio Modonese Palumbo & soci (che festeggiavano il ventennale di attività) e Paolo Spaccamonti, di venerdì Gordon Sharp/Cindytalk, che ha seguito con evidente interesse le serate successive, e il tedesco Sleeparchive.

La line-up di sabato mischia sonorità elettroniche eterogenee, modello tipico di serata dedicata a beat marziali e cortocircuiti all’interno di una proposta più ampia, se non che in questo caso abbiamo quei tre-quattro artisti che corrispondono alla crème attuale.

Fukte

Fabrizio De Bon è il fondatore di Toxic Industries, noise label bellunese che da oltre cinque anni promuove svariati progetti, dando uno spazio considerevole a esordienti italiani e collaborazioni esterne. Sul palco all’aperto del Varvara suona come Fukte, con un set analogico-digitale in salsa harsh che giustamente termina con una smerigliatrice su tubi arrugginiti, fondendosi al simpatico karaoke di uno stand poco lontano dal Cap10100 in un involontario teatrino japa-noise. Live che ascoltiamo solo in parte, ma che rimane un’ottima entrée di sound crudo e sintetico.

All’interno segue Marc Ash, producer di base torinese, dai Cyndies (un ottimo album con la Phantasma Disques durante il boom della witch house) all’esperienza milanese Crimewave, che è cresciuta sull’onda delle stesse sonorità ma è riuscita a proseguire in modo autonomo e versatile, senza restare legata unicamente a quello che purtroppo è diventato un circolo vizioso di bassi hip-hop e Twin Peaks. Il dj set è denso di questo sound oscuro, ma resta leggero e plasmabile, del tutto personale, una techno libera dall’eccesso di rigore compositivo (quello che c’è ma non deve vedersi, come le ballerine che contano i passi di danza), estremamente sciolta, arricchita da visuals esoterici. Ash avrebbe ricevuto un feedback ancora migliore a fine serata, dato che la maggioranza del pubblico al momento deve ancora arrivare, ma è un’eccellente apertura per Violet Poison. Francesco Baudazzi, metà Violetshaped con Nino Pedone, cattura – per centellinarlo nella sua pozione – quanto di più morboso e insalubre di quello che possiamo definire un panorama culturale (e non solo) legato a terrore, violenza e malattia. Un calderone dove i fumi non sono richiami visivi semplici e superficiali, ma il risultato è una musica sanguigna, riottosa nel suo essere iperrealista, che sa trasformarsi e insinuarsi subdola nelle pieghe della mente. Qualcosa di estremamente pulsante e vivo, metamorfico, amorale. A testa bassa contro un muro senza dubbio alcuno, ma se questi tremiti scuotono una prima parte del live, tagliata da fredde lame industrial ed echi stridenti, la seconda è più soft e ballabile, un beat falsamente rassicurante che intercede una spirale lenta e inquieta dove precipitare senzienti, un grembo da cui farsi risucchiare. “Il veleno è l’arma delle donne”.

Cut-Hands

William Bennett aka Cut Hands è il nome che ha chiamato a raccolta un po’ di veterani (lo stesso è successo alla Villette Sonique) ma, contrariamente a Parigi, nelle prime file non c’è spazio per chi resta fermo. Bennett inscena un terremoto di pulsioni, beat frenetici che si attenuano per dare tregua momentanea agli stimoli sonori e visivi, ma che cavalcano sempre quel sound bollente di danze inarrestabili, legate alla collettività, alla tradizione orale e all’appartenenza tribale. Se il ballo come espiazione di un male o rigetto di un veleno è annoverato tra i riti e le storie tramandate più affascinanti del nostro Sud (ma non solo), Cut Hands propone la leggenda seguendo i propri fili narrativi, ma possiamo tranquillamente percepire nacchere, tamburi e sonagli attraverso il filtro dei nostri sensi.

Ancient Methods è il progetto più ieratico della techno industrial attuale, ed è Michael Wollenhaupt. Conoscerne il nome serve a poco, quando mantenere l’anonimato in tali contesti può sembrare una scelta da paraculi, diciamo che le informazioni sono scarse e vengono elargite col contagocce. Ma non ci importa più di tanto, quando concept così ricco e genuino, e musica antica e sincera, si stagliano di fronte alla massa informe di artisti che puntano sulla visibilità forzata e su un pubblico condizionato dal partecipazionismo (e su una techno orecchiabile, ballabile, discutibile…). Nulla in contrario, c’è bisogno di una proposta per tutti, ma anche questo fa parte del gioco. Ancient Methods costruisce un’esibizione che combina frammenti dei suoi “Methods” e di “Seventh Seal”, arcaici e marziali, rigorosi e puntuali come un boia, a inediti meno cupi ma che riecheggiano comunque di torture medievali silenziose. La composizione magistrale di techno e industrial, oscurità immobile e lampi accecanti, è impalpabile nelle sue cuciture e scorre fluida e copiosa, per ore. Non riusciamo a terminare il live, ma ascoltare “Knights And Bishops” per intero è stato un regalo.

Phurpa1

La domenica ha come tema principale quello delle “voci lontane”. Facciamo in tempo ad arrivare prima del concerto dei russi Phurpa di Alexey Tegin, indaffarati in un lungo e meticoloso soundcheck. A un certo punto indossano i caratteristici costumi e subito l’atmosfera si fa concentrata, e a rituale partito il pubblico si fa sempre più folto ed attento. Si capisce che i tre non hanno intenzione di adeguarsi agli standard tipici di un festival, farli suonare mezz’ora circa è limitarli un po’. Tant’è, anche se ad un certo punto un volenteroso dello staff si premura di accostarsi con circospezione a uno di loro, questo non incide più di tanto su una proposta che è tanto complessa ed affascinante quanto impenetrabile, adatta a una location al chiuso, che permetterebbe alla band di agire in solitaria per tutto il tempo necessario. La musica proposta non è solo tale, chiaro, ma è vero e proprio cerimoniale con tanto di corni tibetani e partiture declamate attraverso voci gutturali proprie del canto gyer. Difficile ascoltarla per tramite di un supporto fonografico, va vissuta su di un palco con l’incenso che aleggia forte nell’aria. Esibizione tra le più peculiari della serata.

Si sale in fretta al primo piano della struttura, già sta incominciando a suonare Gianni Giublena Rosacroce, che per l’occasione si presenta con un vero e proprio ensemble (sono in sei, per la cronaca) e mette in scena uno spettacolo che sa di strana festa di paese. Non ci fraintenda il musicista leader dei Movie Star Junkies, intendiamo un paese di frontiera, deserto, popolato da fantasmi che si muovono ebbri tra i cadaveri, aspettando l’alba con gli occhi sbarrati. Per un attimo vengono alla mente degli Enfance Rouge acustici intrappolati in una morgue. Lenti e inesorabili, suonano con innata passione. Notevoli, si cimentano pure in una rendition di un pezzo dall’ultimo de La Piramide Di Sangue.

Dopo è la volta dei Lay Llamas di Nicola Giunta. Notiamo un radicale cambiamento di line-up, in pratica tutti nuovi tranne il musicista siciliano. Rispetto alla volta precedente, dove l’impostazione rock-psichedelica era evidente, ora si registra un deciso spostamento verso le ritmiche, più preponderanti, che fanno si che la proposta sia sempre poco facile da etichettare. Verso la parte finale torna con prepotenza la sottile vena psych che li aveva caratterizzati sin dagli esordi, ma a questo punto siamo curiosi di vedere se verrà confermato o meno su disco questo nuovo, e coraggioso, orientamento stilistico.

È piuttosto tardi, e la stanchezza si fa sentire. Dopo qualche piacevole chiacchiera riusciamo finalmente ad intercettare uno dei gruppi meglio nascosti del nostro underground, gli Space Aliens From Outer Space. Sono in tre, mascherati di tutto punto, e riescono nell’impresa di non farci addormentare, vista l’ora. Suonano col giusto piglio mescolando space-rock ed elettronica epica e dal sapore vintage, mai però passatista, anzi. Soprattutto riescono a mettere su una sorta di spettacolo elettronico, grazie alle tastiere accompagnate da laser, che sa di atmosfere sci-fi ed al contempo di liturgia; al tutto non manca poi una salutare dose di ironia, che è sempre un bene.

A questo punto siamo cotti e decidiamo di andare via, perdendoci il dj-set in chiusura di Santa Maria Della Psichedelia. A proposito: è interessante notare come il Varvara riesca ad integrare, anche con un certo coraggio (va sottolineato), dj-set ad esibizioni più tradizionali senza sembrare un pentolone con troppi ingredienti diversi tra loro, quindi possiamo dire che la strada intrapresa sia quella giusta. Vedremo se i ragazzi avranno la forze, e le risorse, per proporre cose meno scontate come quelle di quest’anno anche alla prossima edizione.

Ringraziamo lo staff e Irene Gittarelli per le foto.