VARGRAV, Netherstorm
In linea di massima non mi è mai piaciuto il black metal finlandese, perché ha sempre avuto una componente brutale (Horna, Beherit), distruttiva (Impaled Nazarene, Musta Surma) o nichilista e, anche quando si cercavano soluzioni tendenzialmente melodiche (Clandestine Blaze, Satanic Warmaster), avvertivo sempre delle patine grezze e spesso cazzone. Col tempo qualcuno è entrato nel mio pantheon personale: Raate, Cosmic Church e Oranssi Pazuzu; se non mi viene in mente altro è perché non è importante. Da poco, però, alla lista s’è aggiunto un piccolo e sconosciuto act proveniente da Hyvinkää, la one-man band Vargrav, che forse ha pubblicato il più bell’album dell’anno. Un attento e puntiglioso cultore potrebbe dire che Netherstorm in realtà è apparso alla fine del 2017, ma era solo in formato digitale… tempo qualche settimana e la Werewolf Records lo ha puntualmente stampato in un paio di lussuose versioni, anche con sette pollici annesso.
Vargrav, come avrete intuito, si distacca in modo sensibile dalla maggior parte del black metal finlandese per spostarsi direttamente nella Norvegia dei primi anni ’90. Più volte su queste pagine abbiamo parlato dei diversi tentativi di revival e di come al giorno d’oggi escano fuori degli album che paiono esser stati seppelliti più di vent’anni fa e dissotterrati solo adesso. Ecco, Netherstorm è esattamente uno di questi. Un incredibile viaggio fra il 1992 e il 1994 all’insegna di un black metal sinfonico oscuro e sognante, con le parti orchestrali realizzate con una Roland o poco più.
I brani sono lunghi ma semplici e vanno a spolverare tutti quei riff, rallentamenti e riprese che ormai appartengono all’immaginario di qualsiasi ascoltatore black metal di lunga data. Le influenze sono parte di una stessa “cosmogonia”: Satyricon, Dimmu Borgir, Ancient, Covenant, Emperor e, in particolare, gli album di debutto di ciascuna di queste band. Non so se vi era mai capitato di sentire le farfalle nello stomaco quando in passato sfogliavate i libretti di questi dischi, con le prime foto promozionali o con i flyer allegati ai vinili o ai demo. Quella mania febbrile che vi faceva sentire parte, nel vostro piccolo, di una scena lontana che però in qualche maniera esisteva anche con voi. Forse è perché questo genere di musica vi è entrato dentro e difficilmente se ne andrà da voi che avete provato certe sensazioni: Netherstorm è un album che le rievoca in modo puntuale ogni minuto, a ogni riff che profuma di The Somberlain, a ogni tastiera che ricorda Wrath Of The Tyrant o For All Tid. Ogni tanto si allunga qualche labilissima ombra folk, ma è un folk che non ha niente a che vedere con chitarre acustiche o flauti ed è semplicemente quell’accostamento di note e sentimenti che si poteva sentire in “Svartalvheim”, in “Drep De Kristne” o anche in quell’unica e fortunata commistione blasfema di “Antichrist”. Talvolta emerge perfino qualche voce robotica, che non va però a modificare la percezione generale che si ha dell’album (oscurità medievale, fantasie cavalleresche o dimensioni magiche), spesso amplificata da piccole sinfonie poste all’inizio di ogni brano, tra le quali – per come sembra provenire dai Summoning o dai Limbonic Art – spicca quella di “Obedient, Intolerant, Ensnared”: sono rappresentazioni pittoriche di un mondo lontano, scomparso e forse mai esistito, e pare che anche il prossimo album si manterrà sempre su questi territori grotteschi e crepuscolari.
È impossibile dare la preferenza a un pezzo piuttosto che ad un altro, visto che questo lungo salto indietro nel tempo va ascoltato dall’inizio alla fine, senza soluzione di continuità. Le chitarre in tremolo compongono riff quasi sempre manieristi – ma impeccabili – e i synth, deboli ma onnipresenti, assieme agli echi in lontananza della batteria si amalgamano al resto delle sonorità. Talvolta poi qualche fraseggio di chitarra fuoriesce dal magma, coinvolgendo sempre di più l’ascoltatore in questo viaggio nostalgico, un mix caotico e melodico di suoni che sul finale rispolvera Stormblåst e In The Nightside Eclipse. Proprio Ihsahn e soci rischiano di essere quelli chiamati in causa più spesso nelle recensioni, anche perché nel sette pollici allegato all’edizione vinilica compare una cover stregonesca di “Ancient Queen”: la perfetta chiusura di un album pieno di citazioni e riferimenti, ma che non sa di plagio. Un capolavoro praticamente perfetto.