VALERIO DANIELE / EGIDIO MARULLO, Primo Canto Alla Macchia
Qualcosa che ha a che fare col Sole, col Fuoco, dunque con la Luce. Elementi naturali a cui le maiuscole sono dovute, per rispetto, per filiazione, per devozione. “L’aria della terra in cui sono nato”, dice Valerio Daniele, “non si misura con le sue distanze. Come le sue meste, piane, distese di ulivi”. E nemmeno questi vasti, orizzontali, aerei piani sequenza per chitarre e real electronics si possono misurare o spiegare: languide e raccolte allucinazioni domestiche, come un inverno psichedelico da dietro il vetro di casa mentre la luce cresce anche sui bordi dei giorni-scatola. In queste otto miniature si sente la Terra, si sente l’odore del Mare, si sentono gli ulivi che premono come una preghiera contro il cielo. “Canto Alla Macchia, Frammento” apre il sipario su panorami larghi, commossi, familiari, con la chitarra elettrica che trova una melodia intima, minima, quasi una nenia, che poi si dissolve nel cielo. Nello stesso cielo dove vaga “Speranza Caduta Da Cavallo”, ambient senza gravità come degli Stars Of The Lid mediterranei all’inizio, che successivamente lascia spazio a una chitarra acustica narrativa, destinata a sua volta a scomparire per restituire il trono a suoni sottili che sanno di perdita, di scomparsa. Sei minuti abbondanti di ipnosi. “Il Sole Brucia” inizia rovente, quasi desertica, come un Dead Man senza William Blake, per poi trovare un gancio melodico e un piglio vagamente post-rock che, pur muovendosi negli ambiti del già sentito, tocca le corde giuste. “Canto Alla Macchia, Visione Anzitempo” è un bozzetto per chitarra acustica enigmatico e con un che di spagnoleggiante che a me fa venire in mente certe pagine del grande compositore e chitarrista cubano Leo Brouwer oppure le cose più pacificate e classiche dei Gastr Del Sol di Jim O’ Rourke e David Grubbs. Suggestione, questa dei Gastr Del Sol, confermata ne “L’Inverno Della Calata Dei Tao, La Mar”, dove un fondale “post” favorisce la messa in scena di un’ipotesi di avant-folk scabro e molto sui generis, tra suoni trattati e un canto dolente che sa quasi di lamento funebre e si spegne su suoni imprendibili. Torna un sentimento più pacificato con “Canto Alla Macchia, Frammento 3”, un Bill Frisell che ripropone un repertorio di canzoni per l’infanzia. Se “Doors” chiama nuovamente in causa Leo Brouwer o potrebbe anche ricordare un John Fahey meno arreso o, per i pochi che li ricorderanno, gli italiani Cods. “Canto Alla Macchia” chiude questi quasi 38 minuti con pennellate lievi, minimali, lasciando spazio, spazio per tenere in mano ogni nota, come fossero foglie che cadono, come un canto d’amore alla macchia di cui, se non avessi un banalissimo e fastidioso raffreddore dovuto al virus e alla camera a gas che è la valle del Po, quasi potrei sentire l’odore ora. Poi, inaspettato, un finale totalmente astratto, quasi un’invocazione alle nuvole, o una voglia di pioggia, una specie di raga a farsi strada tra inudibili interferenze, per poi tornare alla melodia come si torna a casa, a rappresentare forse l’orizzonte infinito delle terre salentine e un legame ancestrale, indissolubile, e pure però la totale apertura mentale di un musicista libero, profondo e coraggioso, capace di fare un disco di vero blues senza che di blues vero in questo lavoro ci sia nemmeno mezza nota.
Valerio Daniele è tra i fondatori del coordinamento di autoproduzioni per la socializzazione di musica inedita in nuovi contesti di fruizione che prende il nome di Desuonatori, di cui abbiamo già parlato in occasione del magnifico disco del Bestiario di Francesco Massaro, e questo bel cd, in una splendida confezione, è a corredo di un quaderno di pittura di Egidio Marullo, composto da 12 capitoli e 24 opere realizzate con la tecnica dell’acquerello. Il compact, in 400 esemplari unici con copertine fatte a mano, è allegato al (sempre bellissimo) quaderno. Artista di riferimento dell’etichetta discografica Lizard Records di Treviso, Marullo, per quel poco che molto onestamente posso dire di saperne di pittura, è semplicemente straordinario. Capace di apparire semplice senza esserlo, di far pulsare il colore, di renderlo vivo. La stasi da psicoterapia involontaria di Rothko o il languore di certi albi di Mattotti, o i graffi commossi di Gipi, questi i grandissimi che mi sono venuti in mente scorrendo queste pagine, benedette anche da parole dense e piene di poesia.
A chiosa del lavoro, quasi una sintesi di temi, narrazioni e linguaggi dei due autori, il videoclip/cortometraggio dell’ultima traccia del disco, realizzato integralmente con disegni di Marullo.
A chiosa di una recensione che potrà solo restituire briciole della meraviglia di un lavoro così delicatamente potente (conferma di un collettivo, quello di Desuonatori, da seguire con estrema attenzione, e di una scena, quella pugliese, che assieme a quella friulana mi pare una delle più vive e coraggiose nelle musiche che ruotano attorno al jazz oggi), a me non resta altro che scomparire e lasciare il posto ad una riga delle parole di Egidio Marullo, che con estrema sintesi dicono perfettamente molto di quest’opera, che vi consiglio caldamente di fare vostra.
Qui da noi anche gli inverni sono atti d’amore.