VALERIA STURBA, 2/8/2021

Fontanellato (PR), Labirinto Della Masone.

“Sembrava una cosa straordinaria e allo stesso tempo una cosa da niente. Un prodigio, ma anche la cosa più naturale del mondo. Conservo in me una sensazione indefinibile, che le parole potrebbero dissolvere. C’è ancora tanta strada. Forse nel susseguirsi delle notti e dei risvegli che verranno, uno dopo l’altro, anche questo momento diventerà un sogno” (Banana Yoshimoto, Kitchen)

Ecco, una cosa straordinaria che però chi suona porge al pubblico con grande naturalezza. Non poteva che aprirsi con un portento Storie Prodigiose, la rassegna al Labirinto di Franco Maria Ricci, l’amico di Borges, nei dintorni di Parma: Valeria Sturba, da Nereto (4-5000 persone, in provincia di Teramo: poche ma troppe, come ci dirà poi lei) ma trapiantata a Bologna, da dove spicca il volo nelle direzioni più disparate in varie formazioni, tra le quali ricordiamo gli inimitabili OoopopoiooO, dove trama attentati all’ovvio in compagnia di Vincenzo Vasi, o l’ensemble di Silvia Tarozzi, visto di recente dal vivo da queste parti.

La nostra però può percorrere anche i sentieri dell’autarchia e fare tutto da sola (“Devo vivere in sicurezza/dove vado non mi importa/Ma devo andare”), come nella serata senza luna che andiamo a raccontare: armata di violino, theremin, giocattoli, voce, synth, loopstation ed effetti assortiti, la vulcanica polistrumentista conferma la sua verve imbastendo uno spettacolo fresco, eclettico, passionale, ironico: in una parola, travolgente. Noise da camera, languori da pellicola sci-fi, bave di early electronic music, un’aria di benvenuta e sconfinata libertà come in certe produzioni art-rock della Recommended Records (Charming Hostess, ha appuntato il vostro scriba, probabilmente per un certo incedere sghembo ed i ritmi dispari che a volte emergono), un tocco lunare, surreale, gentile ed inconfondibile ad amalgamare il tutto, come per una ricetta di una space-cake senza effetti collaterali. La serietà del gioco, l’idea che la musica questo sia, un gioco (to play, spielen, jouer), posti strani, nuovi e familiari, che raggiungiamo in questo volo senza paracadute: da qualche parte tra l’iperviolino di Jon Rose, le monumentali fragilità folk di Iva Bittová. Sirene a cui non sarà mai pericoloso abbandonarsi, caroselli sghembi, ninne-nanne durante un bombardamento, madrigali avant-pop, una ridda di loop usati in modo sempre molto musicale (il cartone animato frenetico di Shake My Brain) oppure punk dadaista come un Alberto Fortis maciullato in una lavatrice (Giovanni), sino ad arrivare ad una rivisitazione virtuosa e vertiginosa della Quarta Sinfonia di Čajkovskij. In chiusura, dalle Folk Songs di Luciano Berio, l’aria armena di Loosin Yelav, diafana e struggente, dove una volta di più Valeria mette in mostra le sue grandi doti di cantante, oltre che di strumentista. Per il bis infine è il momento di uscire dalla foresta dei loop e degli effetti, all’interno della quale la gigantessa in miniatura si è mossa con grande disinvoltura, per restituirci nel suo arcano, intatto nitore Mi votu e mi rivotu della leggendaria cantautice siciliana Rosa Ballistreri. Un concerto che ha mantenuto la promessa della rassegna facendoci respirare il raro ossigeno dell’invenzione totale: prodigioso! 

In tutta la sua vita (60 giorni) un’ape può produrre un grammo di miele (Daniela Ranieri)