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VALERIA CAPUTO, Habitat

Luogo accogliente, terribile, straniante, proprio. Da Sam Raimi a Mark Z Danielewski, il fatto che volga e stravolga l’idea di partenza è onnipresente. Caputo Valeria inizia a spron battuto questo suo circolare girovagare sul tema, con un incipit livido e commerciale dal sapore infascelliano. Poi ci invita sulle note folk di “Vieni” a una semplicità che riempie i cuori. Non ci ferma, fra gli arrovellamenti e gli arpeggi di “La Mia Città Che Sull’Acqua Brucia“, Taranto sullo sfondo, il mare e l’attesa. Un pianoforte fa partire “Mel”, spirito ed anima leggera e romantica, tra Francia e Puglia, la storia di una vita che è costellata di scatti e di drammi, nella sua realtà e nei misteri di Melanie, con un ricordo ondivago di “Piano Con L’Affetto” di Üstmamó che è probabilmente un mio transfert personale ma che lì si è inciso è così è. “Taras” sono i brividi intensi della voce di Celeste Fortunato, sono una musica magmatica, oscura, stridente e libera, così come dovrebbe essere Taranto. Valeria ci svela lati di paesaggio, di vita, con brani come danze che vorremmo non finissero mai e delle quali “Sulla Strada Statale” è esempio da brividi.

“Riconoscersi” fa quasi rabbia, dimostrando come sia quindi possibile unire suoni freschi ed estivi, contenuti, melodia e profondità in una canzone che dovrebbe essere insegnata a scuola. Chiude il tragitto un’intensa ed accorata “Dove Finisco Io”. Produzione, suoni e percorso praticamente perfetti.

Un disco che a tratti fa tremare, commuovere, ballare, non credo serva altro per definirlo.