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VAL WILMER, La musica, importante quanto la tua stessa vita

Tutti a lamentarsi e scandalizzarsi perché la pubblicazione italiana (Shake Edizioni, traduzione di Claudio Mapelli) di questo fondamentale resoconto centrato sull’epopea del free jazz è giunta con quasi mezzo secolo di ritardo. Meno male, invece, osiamo dire in controtendenza, così forse si tornerà a dibattere di uno snodo cruciale della storia della musica afroamericana. Magari addirittura a (ri)ascoltare i dischi dei suoi principali protagonisti, da Cecil Taylor, Ornette Coleman e Albert Ayler a Bill Dixon, Sun Ra e John Coltrane. Nomi illustri che stanno rischiando la fine di Armstrong, Ellington, Parker e Monk, di cui sono rimasti in pochi a saper fischiettare un brano. D’accordo, il free di norma non si fischietta, ma immergendosi nelle narrazioni di Valerie Wilmer, fotografa e scrittrice inglese dello Yorkshire presto convertitasi al blues e alla black music, sarà impossibile resistere alla tentazione di rimettere sul piatto Something Else!, Free Jazz, Barrage, Sonny’s Time Now, Conquistador, Intents And Purposes, Fire Music, The Heliocentric Worlds Of Sun Ra, Ascension oppure di digitare simili titoli nello spazio ricerca di una qualsivoglia piattaforma per lo streaming. Quando nel 1977 dà alle stampe As Serious As Your Life, Black Music And The Free Jazz Revolution, la sua più celebre opera, la Wilmer può già vantare una ragguardevole conoscenza dell’ambiente, essendosi insediata giovanissima a New York nei primi anni Sessanta. Se all’inizio sono interviste e fotografie in concerto da vendere alle riviste specializzate (Jazz Journal, Down Beat, Coda, Jazz Magazine e persino Melody Maker), ben presto si guadagna la fiducia dei musicisti stessi, li frequenta nei momenti privati, ne diviene confidente, li osserva vivere e dibattersi nel quotidiano, tra difficoltà economiche, incomprensioni da parte del pubblico e della critica, razzismi assortiti. Un racconto mai banale, vivo, che traccia le coordinate critico-evolutive della New Thing senza dimenticarsi di calarle nel contesto sociopolitico dell’epoca. Una ricostruzione non di riporto, vissuta in prima persona, dove accanto ai maestri del genere sfila una folla di improvvisatori dimenticati o quasi ai quali è d’obbligo tornare a rivolgere l’orecchio per meglio comprendere il fenomeno nella sua interezza. A questo proposito è significativo il capitolo dedicato ai batteristi, categoria ancora nei Settanta sovente considerata di serie B, ma che figure quali Sunny Murray, Milford Graves, Rashied Ali e Andrew Cyrille contribuiranno a porre decisamente sotto un’altra luce. Nonostante l’originale abbia avuto una ristampa nel 1992 e una seconda nel 2018, il volume è rimasto sostanzialmente immutato (si spiega così il non aggiornamento delle oltre 150 biografie dedicate agli artisti trattati), senza perdere capacità di coinvolgimento nella materia e discernimento critico. Una scelta determinata dal volere dell’autrice stessa, poco incline a stravolgere il testo in ossequio a qualche nuova mania critica revisionista. Non ci resta quindi che collocarlo in scaffale a fianco del gemello diverso Free Jazz/Black Power, compilato dai francesi Philippe Carles e Jean-Louis Comolli nel 1971 e tradotto con lungimiranza da Einaudi due anni dopo: si faranno bella compagnia.