Un matematico è una macchina che converte caffè in teoremi: due dischi Intakt
“Il caffè sembra assolutamente fondamentale nell’estetica di Snakeoil” (Tim Berne).
EVAN PARKER – PAUL LYTTON, Collective Calls (Revisited) (Jubilee)
Paul Lytton ed Evan Parker celebrano i cinquant’anni del loro primo incontro e lo fanno con un disco di improvvisazione informale, malmostosa, ispida, scabra: sassofono tenore e batteria in dialogo libero e senza codici prestabiliti. Collective Calls (Urban) (Two Microphones) si intitolava un lavoro del 1972, questo invece è Collective Calls (Revisited) (Jubilee). Un approccio zen e riduzionista alla materia la fa da padrone; esplorazioni al confine del silenzio, radure desolate, paesaggi brulli, il fascino del disadorno. I due musicisti conoscono a menadito questi linguaggi e come rabdomanti vagano alla ricerca di polle di ispirazione nel buio. Una curiosità: tutti i titoli delle composizioni istantanee sono presi da frammenti di “Party sotto le bombe”, di Elias Canetti. E allora proprio dallo scrittore bulgaro citiamo, per dire di un disco che non chiede altro che di chiudere gli occhi e sospendere il giudizio e tutto il resto e lasciarsi semplicemente attraversare da suoni che sono sedimentati nella nostra memoria, ma che ancora hanno qualcosa da raccontarci, se a dirceli sono due maestri: “La cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi”.
TIM BERNE’S SNAKEOIL, The Fantastic Mrs. 10
Sesto disco per gli Snakeoil, l’ultima creatura partorita dalla mente vulcanica di Tim Berne: a questo giro, per la prima volta su Intakt, è della partita Marc Ducret (con Berne già in Big Satan) al posto di Ryan Ferreira alla chitarra. Per il resto, formazione invariata: il sax alto del leader è accompagnato da Matt Mitchell (piano, synth modulari, piano preparato), Oscar Noriega (clarinetto e clarinetto basso) e Ches Smith (batteria, vibrafono, glockenspiel, tamburo a botte di Haiti, gong). Il livello degli strumentisti è come sempre eccelso, la scrittura è tesa ed articolata, il mood sorvegliato, febbrile. La band, vista in quartetto tre anni fa, mi aveva francamente impressionato per potenza e nitore: uno dei migliori live a cui fosse possibile assistere all’epoca, e probabilmente anche dopo. Anche il Very Practical Trio di Formanek, con Berne e la Halvorson, titolari di un bellissimo disco sempre su Intakt (Even Better) dal vivo erano stati una esperienza di alto livello (anche se il responsabile della composizione in questo caso era Formanek). Questo insomma per dire che da queste parti la stima nei confronti del sassofonista di Syracuse è (molto) alta. Surface Noise è il consueto meccanismo serrato e calibratissimo, un labirinto ritmico, un lungo corridoio della paura (magnifico film di Sam Fuller del 1963 a cui David Shea dedicò un album su Tzadik nel lontano 1992, ma sto divagando) con veglie, agguati, minacce, inseguimenti e tutto un arsenale di armi armoniche, dinamiche, timbriche e ritmiche perfetto per farci restare sempre col fiato sospeso. Ognuna delle sette composizioni offre angoli escheriani, punti di fuga, attentati ad Euclide, e si avverte quasi con soggezione la grande mole di lavoro creativo, di pensiero, che sta dietro a queste strutture che fluiscono in modo naturale ma sono state architettate con cura certosina. Al primo ascolto devo confessare che non mi era sembrato altro che il solito disco degli Snakeoil. Inevitabilmente l’ispirazione non resta sempre al medesimo livello e la scrittura in qualche frangente forse si fa impervia e manca un po’ d’aria (stiamo pur sempre parlando di vette); forse siamo noi a non avere i documenti in regola per passare la dogana della zona grigia in cui risiede la creatività ripida e ossessiva di Berne. Chissà. Sicuramente questo è il tipo di musica (se solo, come vorrei, alzassi al massimo il volume) che farebbe trasalire e bestemmiare il mio vicino ottantanove che ancora conserva un udito perfetto. Personalmente, forse preferisco la versione senza chitarra di questo organico, che ad ogni modo resta senza ombra di dubbio una delle cose più interessanti accadute al jazz da un po’ di anni a questa parte.