Un contrabbasso verde oliva: Henry Grimes RIP
Ci sono uomini che, pur avendo attraversato questo mondo a lungo, non hanno mai davvero vissuto. Altri, invece, a cui non è bastata una sola esistenza per giustificare l’enorme impatto che hanno lasciato.
Henry Grimes è stato una bella anima, un musicista, un poeta e pittore. Dalla fine degli anni Cinquanta ha suonato il suo contrabbasso con tutti: Albert Ayler, Cecil Taylor, Archie Sheep, Pharoah Sanders, Steve Lacy, Charles Mingus, Don Cherry, Coleman Hawkins, McCoy Tyner, Rev.Frank Wright, Roy Haynes, Roswell Rudd…
Al Newport Jazz Festival del 1958 suonò con non meno di sei gruppi, tra cui quelli di Benny Goodman, Lee Konitz, Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Sonny Rollins e Tony Scott.
Anche se il suo nome non fu annunciato nel cartellone, un critico del NY Times, Bosley Crowther, definì quel giovane bassista come uno dei principali musicisti di quell’edizione. Il pianista Burton Greene racconta: “Faceva vibrare le corde come un leone, in epoca pre-amplificazione riusciva a tirare fuori un suono gigante che neanche oggi… ma aveva anche cuore e personalità”.
Verso la fine degli anni Sessanta, Grimes si trasferì in California, dove però le cose non gli andarono bene economicamente: fu costretto a vendere lo strumento e smise di suonare. Se ne persero le tracce e qualcuno addirittura ne annunciò la morte, fino a quando nel 2003 Marshall Marotte, un assistente sociale, lo riconobbe e lo aiutò a rimettersi in sesto, contattando tutta la comunità di musicisti. Il contrabbassista newyorkese William Parker gli donò un nuovo contrabbasso, chiamato Olive Oil (dal colore olivastro), e un archetto. Tornò vivere a NY e a suonare di nuovo sui palchi di tutto il mondo, insieme ad altri nomi: Rashied Ali, Marshall Allen, Joe Lovano, John Zorn, Joey Baron, Melvin Gibbs…
Ho avuto l’occasione di assistere ad un suo concerto in trio con Marc Ribot e Chad Taylor nel 2014 al Time Zones Festival di Bari e per una serie di circostanze fortuite ho cenato con loro dopo il live. Conservo un suo tremolante autografo sulla mia copia del vinile “Live al Village Vanguard” e un ricordo di quelle enormi spille rotonde con la faccia di Albert Ayler sulla sua camicia e su quella della sua amata moglie Margaret, che amorevolmente gli tagliava gli spaghetti al pomodoro.
Uno strano scherzo del destino ce lo porta via, davvero questa volta, insieme a Lee Konitz, seguito un paio di giorni dopo da Giuseppi Logan.