ULTRAKELVIN, S/t

Già uscito come split lp con i losangelini Qui, questo lavoro di sei tracce e venti minuti scarsi non dice nulla di inedito nel campo delle musiche rumorose, ma mostra buona verve, capacità di variare il canovaccio e una scintillante ferocia che non scende a compromessi e rende convincente quanto si ascolta. UltraKelvin sono Kelvin (Anna alla batteria e Woolter a chitarra e voce) da Padova, che si espandono con l’innesto di Panda dei Putiferio. È dai tempi gloriosi di Musica nelle Valli, il festival organizzato da Tiziano Sgarbi/Bob Corn che abbiamo nelle orecchie un certo tipo di suoni: all’epoca erano i Redworm’s Farm, ma la stirpe e lo spirito hanno continuato, come diceva un vecchio disco dei Negazione, ed evidentemente nel Veneto certi suoni sono pane quotidiano.

Si parte immediatamente lancia in resta con le sincopi metalliche di “Crussie Crowley, Creepy Crawler”, noise’n’roll a rotta di collo che fibrilla e schizza come un cuore tachicardico in un minuto e trentasette secondi. Molto bene. “Hellzabomber” parte psichica, allude, per poi spalancare le fauci hardcore in un vortice macilento e fangoso: interessanti i suoni di tastiera, che hanno il timbro giusto e aggiungono un tocco di benvenutissima stranezza ai pezzi. Da fughe in avanti che sanno di psicopatia sexualis à la Cows (una band stratosferica, soprattutto dal vivo, per chi ha avuto la fortuna, ai tempi) e rumba rock non così lontana dai conterranei One Dimensional Man, il disco scorre in un lampo e chiede di essere ascoltato a volume altissimo. Abbiamo sentito lo stomp di “Boneless, Teethless” già tante volte, ma non importa, funziona alla grande, è suonato con grinta, convinzione, padronanza della materia e trasmette urgenza e verità. “Black Rambo” è uno sputo di poco più di un minuto che impiega 30 secondi per partire, “Ham Slam!” invece abbina suoni da calcolatore impazzito a mazzate anfetaminiche per poi aprirsi in pause teatrali che ricordano le manie blues-core degli Oxbow o il recente disco dei Buñuel (dei quali abbiamo da poco scritto), strutturandosi come una suite di oltre 9 minuti, tra derive di drone estatici, ruggini psichedeliche, di una psichedelia che non eleva ma annega o caccia negli inferi, dove infatti si torna verso la fine, tra le spine delle chitarre, la batteria che pesta, minimale e funzionale, e una voce ferita e furente. Chiude “Dwarf In Reverse”, come un punk evoluto e involuto, che muore all’improvviso, prima di correre il rischio di suonare retorico. Ultrakelvin: ovvero come usare pochi, noti elementi, e mescolarli nel modo migliore, con un mood scientificamente folle a informare il tutto, e tanta sana rabbia  a  sfociare come melma minacciosa in un disco che ha nella concisione un pregio e andrebbe fatto ascoltare la mattina nelle fabbriche del Nord Est iperproduttivo.