UBOA, Impossible Light
Quando nel 2019 mi sono imbattuto in The Origin Of My Depression, con quella copertina che ritrae un letto spoglio immerso in uno spazio liminale inquietante, sono stato sommerso da tutta la tristezza ansiogena del disco, che come una marea mi ha fagocitato in un battito di ciglia. Uno di quei prodotti multimediali da cui è difficile staccarsi, pece densissima che si intelaia tra le fibre più recondite dell’animo. Era già il quinto disco per Uboa, ma io non lo sapevo. Sapevo solo di quei piedi fotografati sotto alle lenzuola della lettiga, quel flash alieno a illuminarle e tutto intorno quelle tende quasi finte nella loro colorazione cosi banale.
Uboa, al secolo Xandria Metcalfe, ha passato gli ultimi tre lustri a scandagliare tutti gli abissi più profondi dell’heavy music. Dall’harsh noise al dark ambient, passando per glitch e doom metal, variando stili e stilemi con un solo obiettivo: esprimere gli stati mentali più estremi. Un approccio eclettico che rende ogni sua produzione un tour de force, sempre sull’orlo di una crisi di nervi e impacchettato in quello che può essere tranquillamente descritto come un attacco di panico sonoro. Impossible Light continua questo lavoro di decostruzione e ricostruzione di tutte le pieghe della psiche in un saliscendi noise che ci riporta nuovamente sull’orlo del precipizio, a osservare l’incubo negli occhi. Un lp nato nel 2018, accantonato per anni, sommerso dal suo stesso peso specifico e fatto tornare a galla nel 2023 per lasciar emergere l’esperienza cruda dell’artista con la sua transizione di genere e con i suoi problemi di salute mentale. Un ascolto a tratti insostenibile, catastrofico nei suoi momenti più harsh e ansimante nella calma apparente dei suoi rantoli più ansiogeni. “A Puzzle” è un buon esempio di questa difficoltà di ascolto, capace di stritolarci in un inferno cacofonico. Le sezioni prettamente più musicali sono più uniche che rare, come in “Gordian Worm”, carico di boom cosmici e forti echi industrial in cui fanno capolino anche chitarre elettriche a tagliuzzare i testi sempre carichi di un gusto gore e splatter di ballardiana memoria (“My worm writhes inside me, I love her more than I can say. She sucks my blood and eats my flesh and fills the lesions with her eggs”). Crudo realismo corporeo, tenebre che vibrano di urla agghiaccianti (gli ululati di “Weaponised Dysphoria” mi inquieteranno per settimane). La luce in fondo al tunnel descritta nel titolo (citando testualmente Uboa) rappresenta la gigantesca forza d’animo che serve per andare avanti nonostante tutto, consci che alla fine di quel tunnel la luce ricomparirà. Un tunnel destabilizzante, muraglie noise e glitch capaci di trapanare anche la mente più inscalfibile, tracce così fisiche da risultare faticose nel loro incedere (nota di merito per il mastering del sempre sapiente Lawrence English). Un’esperienza più che un disco. Un’esperienza totalizzante e infestante. Un’esperienza fondamentale per far comprendere la lotta quotidiana nell’autodeterminazione dei corpi e per sentirsi genuinamente rappresentati e compresi. 47 minuti difficili. Questo disco è solo l’ultimo sforzo di un’artista che ha spostato i limiti cosi tanto da disintegrarli, distorcendo la produzione sonora per farla diventare pura psicanalisi e conseguente (si spera) catarsi liberatoria. Una catarsi che per nostra fortuna si paventa nella conclusiva “Impossible Light/Golden Flower”, dieci minuti di suite angelica aperta da un carillon inquietante e familiare a cui segue un’ascensione che rischiara finalmente il nostro volto, insicuri di cosa sia effettivamente quella luce in fondo al tunnel ma felici di aver ritrovato l’ossigeno dopo l’apnea.