TV LUMIÈRE, Avrei Dovuto Odiarti
Oscuro, commovente, crepuscolare, abbandonato, deformato: potrebbe sembrare la descrizione attuale del mio sistema nervoso o dello stato comatoso in cui riversa la musica al momento. Se vogliamo continuare a ingoiare a forza la storia dei media su una presunta rinascita del cinema e della musica italiani, va bene, purché si facciano i nomi giusti. E se un nome c’è, e gira da quasi vent’anni, corrisponde a quello dei TV Lumière.
Lo so che questo disco è uscito il 22 marzo, ma recensirlo prima poteva essere, almeno per me, un grosso sbaglio. Anche perché la primavera e poi l’estate sembrano le stagioni deputate dal pubblico per inibire i lobi frontali, come se un disco che mette alla prova chi è in ascolto aumentasse la calura (e questo è più che vago campanello d’allarme sul work in regress a cui sottoponiamo in modo sistematico la nostra mente).
Federico Persichini (voce, chitarra), Ferruccio Persichini (chitarra), Alessandro Roncetti (basso) e Yuri Rosi (batteria) entrano a gamba tesa tra le uscite discografiche (per i Dischi Del Minollo) di un 2019 saturo quanto stanco. Sono passati otto anni da Addio! Amore Mio, e il concept è sempre da fin de siècle/fin du globe ma l’incantesimo del sonno gettato sull’Europa di inizio Novecento pare essersi dissolto. E dopo il risveglio, l’epilogo nella sua tragicità potrebbe rivelarsi una dolcissima consolazione: comprendere che le fila dei sogni, belli o brutti, non si possono riprendere mai e la percezione del mondo e del microcosmo della nostra vita è frustrante perché parziale. C’è molta tenerezza nell’aria, un indugiare infantile nell’accezione positiva del termine: dai solchi chitarristici che ricordano i pezzi più lisergici dei We Lost The Sea come “Canzone Bianca” alle atmosfere di r/esistenza marziale dell’iniziale “L’Indifferenza”, vero e proprio punto di riferimento per tutto il disco. E il disco lo apre davvero bene, con l’impressionante equilibrio tra chitarre, basso e batteria che si trincerano diffidenti in un sound apparentemente semplice ma schiavo di un caos pulitissimo. Un piccolo miracolo di dinamica controllata, una perfetta proporzione tra le parti chiamate in causa. Nel gelido calore di ogni pezzo si possono scorgere momenti di disarmante emotività, sostenuta da ammiccamenti, voluti o meno, smaccatamente 90s da ascoltare passivamente dall’autoradio aspettando che lei o lui sotto casa sua si decida a scendere: un vero e proprio inno all’Alta Fedeltà di Nick Hornby è “L’Appartamento Sul Lungonera”. Ma i momenti più intensi e maggiormente significativi che ti permettono di sopportare la mancanza di eccessi, e dipingono la natura rarefatta del post-rock tanto caro al gruppo quanto al loro padrino Amaury Cambuzat, sono nelle confessioni notturne della strumentale “La Strage Di San Valentino”; nella ricerca di un’ultima frontiera, per sentirsi vivi, in spazi desolatamente immensi di un’America evocata di “Un Sicario”; nell’omelia di “Ipotesi Di Ritirata” dove una voce inarrestabile si lancia all’inseguimento senza speranza della sua stessa ombra o in fondo al mare non dissimilmente dal protagonista de “L’Atalante” di Jean Vigo.
Un brutto disco dovrebbe essere dichiarato una tragedia nazionale, un buon disco, invece, un vero atto d’amore supportato, in questo caso, anche dal lavoro in sede di produzione di Carlo Zambon.
Mentre i migliori tra di noi provano a rianimare il prossimo, e le uscite discografiche dei nostri padri putativi (o madri) corrono a spron battuto per accaparrarsi nel migliore dei casi il titolo di insignificanti, il quartetto umbro procede convinto senza soluzione di continuità. Trovo meraviglioso che un gruppo s’impegni nel dirmi, senza troppi giri di parole, che non solo l’unica a non avere più le coordinate giuste per vivere il presente. E come potrebbe essere altrimenti? Sentite, personalmente dovrebbe finire l’epoca dei pat pat sulla testa à la Benny Hill, di incubatrici emotive sottoforma di dischi, film, torrent, libri e post; ma ancora più dei surrogati materni, un disco sul piatto o la piattaforma on-demand del momento, che ci aspettano a casa ogni sera per dirci che tutto andrà bene quando il mondo, ogni giorno, ci dà prova del contrario brutalizzandoci in modi talmente pervasivi e sottili (perciò perversi) da chiedersi se effettivamente sia stata una grande idea crescere. Ma se crescere, soprattutto nella noia ipertrofica della provincia (per loro, e per comodità, diremo la ridente Terni), significa cogliere tutti i riferimenti di Avrei Dovuto Odiarti, l’inquietudine latente, l’anomia, il disincanto, il cinismo e le influenze musicali che dovrei citare, almeno per non rendere del tutto inutile il concetto stesso di cartella stampa, allora posso concedermi questa scappatella momentanea con la musica prima di battere in ritirata.
Avrei Dovuto Odiarti, per dirla con David Simon, se ne fotte del pubblico medio. Eppure, non pago, continua a crescere dopo ogni ascolto, tanto per farci capire quanto siano fasulle la maggior parte delle cose che ci circondano.
Si può stare in due posti contemporaneamente? La risposta alla fine delle nove tracce è un grosso sì. Tutte le vite snocciolate nel quarto album dei TV Lumière sono valide. Che sia l’esistenza lasciata in sospeso di un amore perduto; la vita solitaria seppure appagante delle traversate oceaniche (degne della Magnum Opus di Edgar Reitz, “Heimat”) alla ricerca del “paese della sedia elettrica” o una corsa a perdifiato nell’apocalisse delle proprie guerre interiori. “Sonny J. Barbieri”, che chiude l’album nella solennità di una frammentazione emotiva, rende il tutto terribilmente attuale. Le prospettive che ci vengono presentate come nuove sono già cosa vecchia, interiorizzate e lasciate indietro e il nemico è una fazione ostile che possiamo riconoscere allo specchio tutte le mattine. Spesso l’unica mossa possibile, in una partita a scacchi, è non muoversi. Una vera resa per contrastare la parata di errori commessi e subìti, per evitare di inseguire fantasmi e assecondare le fantasie che l’altro riversa su di noi: la risposta riposa nell’immobilità frenetica delle private stanze dell’immaginazione.
Dopo una lunga pausa i TV Lumière sembrano mettere un punto al discorso iniziato con l’album omonimo uscito nel 2005. Aleggia, sotto la patina di inquietante calma, e loro sono sofisticati quanto rudimentali, un sentore di inevitabilità. Se dobbiamo dirci addio tanto vale farlo cantando, con tutta la saggezza e la rassegnazione, viva quanto preziosa, di un gruppo di artisti che in nuovo orizzonte non vede una fine, ma una infinita gamma di possibilità. E la bella copertina, opera di Federico Persichini (sovrapposizione di due vecchi quadri), ricorda tanto l’antesignano di un graphic novel che insinua la triste idea che Avrei Dovuto Odiarti forse è il sogno di un ragazzino, chiuso nella sua stanza, che non riesce a venire a patti con l’indifferenza della realtà.