TUNE-YARDS + FATHER MURPHY, 6/3/2012
Bologna, Locomotiv Club.
Bizzarra la proposta del Locomotiv in questa serata di inizio marzo. Da un lato le derive noise del folk scheletrito opera del trio veneto e dall’altro il frullatore di stili e reminiscenze dell’artista statunitense.
Andiamo con ordine: superata la palese difficoltà di decodificare quasi in contemporanea i due linguaggi, all’apparenza diversi ─ i rispettivi fan erano riconoscibili l’uno dall’altro ─ dobbiamo ammettere che è stata un’occasione speciale. Il reverendo si conferma, ancora una volta, come l’act più potente ed espressivo degli ultimi anni in Italia. Federico Zanatta & soci sono coscienti di aver compiuto il salto di qualità, si vede dalla sicurezza con la quale inscenano il loro apocalittico teatro delle illusioni, dove appunto i brani si animano come incantevoli ombre cinesi. La loro proposta musicale è coesa, potente ed evocativa, misurata fino all’esasperazione: i pezzi dell’ultimo Anyway Your Children Will Deny It (Aagoo Records) sono una botta allo stomaco senza precedenti. L’apertura è tutta per le contorsioni di “How We Ended Up With Feelings Of Guilt”, col set che continua sulla strada già intrapresa nei precedenti lavori. Demarin comanda il gioco, mentre la chitarra implode tra le pennellate di tastiera e gli scampanellii di Chiara Lee. Finale da urlo. Michael Gira dovrebbe suonarci assieme, solo così troverebbe pace in questa terra martoriata dalla bruttezza.
Veloce reset mentale, intanto si smonta tutto e si prepara il proscenio per l’autrice dell’acclamato WHOKILL (4AD). Il locale s’è riempito ancora di più, e la ragazza fa la sua apparizione con quel look da hipster drogata di culture terzomondiste. In un’ora e un veloce bis ci fa vedere di che pasta sono fatte le sue canzoni imprevedibili, l’audience apprezza parecchio la sua cosa, che rimane per noi spiazzante e foriera di mille possibili interpretazioni. A un rapido ascolto può ricordare il primo Beck, quello che rivisita i canoni folk e lo innesta nell’hip hop in Mellow Gold, poi la confusione voluta ci assale e sembra di ascoltare un ibrido weird-folk circense, ma senza nessuna spocchia. Merrill Garbus ci crede veramente in quello che fa e non aspetta impaziente le copertine di riviste patinate. Non possiede filtri, è proprio così com’è, nuda davanti al suo pubblico. Sorride compiaciuta, strimpella il suo ukulele elettrificato, facendosi accompagnare da un bassista altrettanto scafato e da un bis di sassofoni felici. Provate a immaginare David Byrne che si rinchiude in una riserva Apache e reinterpreta tutto il songbook indiano con devozione e un pizzico di follia. Questo e altro racchiudono pezzi come “Gangsta” e “Es-So” (solo per citarne alcuni), infarciti come sono di r’n’b, vocalismi arditi e interessanti matrici folk. Ammettiamo che non sono il nostro pane quotidiano, certo, ma la passione e l’empatia della ragazza sono encomiabili, tanto che ci viene da pensare all’accostamento di questa sera, non così campato per aria. Avercene di eventi come questi, ma sarebbe come chiedere troppo, forse. Comunque sì, queste sono alcune delle tendenze in voga negli ultimi anni: da una parte una rilettura seria e problematica delle musiche altre, dall’altra una revisione più da frullatore delle stesse. Il punto di partenza però è sempre lo stesso: le radici.