TULPA, Temple Of Wounds


“Tulpa” è, nel buddismo tibetano, una sorta di entità immaginaria creata attraverso particolari stati meditativi. La band di cui sto per parlarvi vede in tale concetto anche una forma di dissociazione mentale, perfetta per addentrarsi negli anfratti più oscuri di sé stessi. Dopo l’ottimo ep Fear Of Fades del 2017 e l’acclamato album di debutto Unhealed (2019), i Tulpa sono tornati con Temple Of Wounds, pubblicato il 12 aprile 2024 su Folter Records. Dagli esordi ci sono stati dei significativi cambi di formazione: il nucleo primigenio vedeva Alessandro Coletta (Mother Augusta, Nocturnal Depression) in veste di cantante/chitarrista, Andrea Artusi (ex-Whiskey Ritual) al basso e Kyo Nam “Asher” Rossi (Forgotten Tomb, Whiskey Ritual, Caronte) alla batteria. Matteo Cordani (Mother Augusta) si è unito poco dopo, passando in seguito al basso quando Artusi ha lasciato la band nel 2019, Asher è passato alla chitarra, ed è stato reclutato Tomaso Fontanini (anche lui nei Mother Augusta) dietro le pelli. Asher ha recentemente lasciato la band, prontamente sostituito da Elia Girotto.

Il fatto che i componenti suonino già assieme in altre band non fa di Tulpa un mero side project, in questo caso è semplicemente una prova tangibile di quanto ampia e profonda sia la creatività di chi ne fa parte.

Un accentuarsi di sonorità riconducibili al black metal, con elementi della sua corrente depressive differenzia l’album dagli esordi, più vicini a crust e d-beat, ma è una diretta continuazione e conseguenza del precedente album, Unhealed, anche a livello di tematiche: la guarigione è un percorso accidentato, ricco di imprevisti e flagellato dalle intemperie, di cui Alessandro racconta i momenti salienti con struggente immedesimazione. È come se potessimo “vedere” il dramma del trauma dal suo interno, lungo un percorso catartico narrato in prima persona. Dopo una breve intro strumentale, “Healing” entra a gamba tesa nel pieno dell’azione: estrema, melodica, coinvolgente, è un esempio di altissimo livello di come si debba scrivere una canzone perfettamente in linea coi generi di riferimento citati, ma con un tocco creativo, soprattutto nell’uso delle chitarre, che oggi è difficile da trovare anche in band che hanno fatto scuola.

Il cantato di Alessandro è viscerale, con una carica emotiva davvero toccante anche nelle metriche più serrate, come accade per esempio nella title-track. C’è un senso di speranza, poco comune in questo sottogenere del metal estremo, solitamente dominato da misantropia e rassegnazione: un verso come “and we’ll die alone unless our tragedies are shared” risuona come un mantra, un invito ad aprirsi innanzitutto al proprio autentico sé, con tutti i rischi del caso. È altresì inusuale la giustapposizione di elementi musicali così estremi a testi che invitano alla riflessione e all’introspezione, ma per qualche strano equilibrio l’insieme funziona piuttosto bene.

“Drops Of Silence” è uno dei momenti più alti dell’album, anche grazie allo splendido assolo conclusivo, e “Zerotonin” ricorda da vicino le eccellenze DSBM dei primi anni 2000 nell’arpeggio iniziale, per poi svilupparsi in un crescendo soffocante, pesante, insostenibile, come gli effetti della depressione su corpo e mente, con una dovizia di particolari che chi ci è passato troverà terribilmente familiare ma a suo modo confortante, e nota di merito anche al gioco di parole nel titolo.

Erigere un tempio alle proprie ferite è un’immagine molto forte dalle molteplici interpretazioni. Mi piace pensare che chi ha scritto questo album viva con serenità e magari anche con un po’ d’orgoglio l’ipotesi che l’ascoltatore si senta meno solo nelle sue lotte interiori. Il metal estremo sa, a volte, essere un potente strumento terapeutico, e Temple Of Wounds ne è la prova. Esporsi non è mai facile, e l’esigenza creativa di questi ragazzi, nella sua autenticità, ha portato a un risultato notevole sotto ogni aspetto.