TROY VON BALTHAZAR, Aloha Means Goodbye
Si riconosce dalle prime note di chitarra l’incedere di Troy Von Balthazar, al settimo album da solista dopo una carriera con i Chokebore. La voce trema fra trasporto emotivo e un paesaggio sconfinato da grande pianura desertica, un martello come arma e parole regalate al vento. L’incedere è melanconico, ma con “Boom Boom” il suono acustico delle corde e la voce risonante di Troy ci fanno sentire dentro a una sorta di strano spazio, un rimbombo e le parole che sembrano rimbalzare qua e là, come in una sorta di candido blues. È un cantautorato fluido e in qualche modo sofferto quello dell’hawaiano, senza troppe sovrastrutture, un pianoforte in “Her American” per un classico brano che però riesce a mostrare più lati di sé, lirico e intimo insieme. A tratti vengono in mente alcune epiche arie anni Ottanta ma in tono minore, quasi una scala ridotta di alcuni Joy Division in “Please?”. Si sentono la minuzia e il minimalismo delle soluzioni, giocate da Troy Von Balthazar senza nessun appoggio, eccetto quello sparuto pianoforte che non fa esplodere i brani, complessi e intimi. Ciò non esula dalla spesa di energie, con un canto che si conferma espressivo e trasformista, a seguire il ritmo degli archi in una “I Love Airplanes” lirica e al limite dello spoken word, correndo oltre al suono. I momenti dimessi sono quelli dove l’intensità riesce ad aprirsi, sorretta poi dagli arrangiamenti che riescono a mandare le melodie in alto. Voci che vengono filtrate come in “So Sunny”, oppure veri e propri classici del mestiere che ci riportano ai tempi antichi come “Nurse 13”. Aloha Means Goodbye ci ripresenta un musicista che segna una continuità pur svelando nuovi lati di sé stesso, e che con la conclusiva title-track sembra stagliarsi su un tramonto francese, lo sguardo verso al proprio atollo di partenza, una litania che lo accompagna e che riesce a declinare dopo anni sorprendendoci ancora. Di certo non sarà questo disco a svoltare la carriera di Troy ma siamo sicuri che blandirà anche l’ascoltatore più distratto, in una produzione per un’etichetta, la Vicious Circle, che con questo e l’ultimo album di Shannon Wright ha piazzato una doppietta per certi versi anacronistica, o forse soltanto di una bellezza classica e a tratti disarmante. Aloha Means Goodbye: chissà invece come si dice alla prossima?