Trevor Mathison: dub, sperimentazione, giustizia sociale

Trevor Mathison è autore di “From Signal To Decay Vol. 2”, uno dei dischi più importanti del 2022, ma la sua è una storia lunga e articolata. Ha fondato, insieme ad altri, il collettivo artistico/politico Black Audio Film Collective (1982-1998), una vera e propria factory produttrice di documentari, video e colonne sonore pluripremiati come “Handsworth Songs” e “March”. Dal 2005 ha in piedi Dubmorphology con Gary Stewart, mentre con Anna Piva ed Edward George (ex Black Audio Film Collective) è stato negli Hallucinator (su Basic Channel) e nel progetto Flow Motion. Ha continuato a comporre colonne sonore, attività che gli ha permesso di attivare collaborazioni e creare allestimenti site-specific in tutto il mondo. Il compianto intellettuale e critico musicale inglese Mark Fisher (k-punk) ha scritto: lo sbalorditivo sound-design di Mathison cresce alla scuola del dub storico, ma i suoi loop e l’elettronica incandescente ricordano ugualmente l’opera di gruppi come Test Department e Cabaret Voltaire. Un’ampia cerchia di estimatori circonda Mathison anche in Italia, è uno dei tanti motivi di questo approfondimento con lui. 

Trevor, ti abbiamo appena visto in concerto al Festival Meakusma in Belgio e il tuo live è stato entusiasmante e sicuramente anche il più coinvolgente! Vorrei iniziare con una domanda che riguarda la tua storia… Sei nato a Londra nel 1960, quali sono le origini della tua famiglia, dove sei cresciuto e quando è iniziato il tuo interesse per l’arte ma più in particolare per i video e per la musica? 

Trevor Mathison: La mia famiglia è originaria della Giamaica. Sono nato ad Hackney, ma sono cresciuto a Londra Est, a Walthamstow. Da adolescente ero un tipo silenzioso e a scuola scoprii di essere molto interessato all’arte quando frequentavo il Walthamstow College. È stato però quando mi sono trasferito a Portsmouth che è iniziato il mio interesse più specifico per i documentari, la video arte e la musica. Ho incontrato altri studenti a me affini e insieme siamo diventati il Black Audio Film Collective. 

Alcuni critici inglesi ti hanno associato alla scuola della musique concrète, quella che fa capo per intenderci a Pierre Schaeffer. Sei d’accordo con questa affermazione? 

Non direi di essere stato influenzato dalla musica concreta, dato che non la conoscevo! Solo più tardi ho capito che era quello che stavo facendo e che si adattava a quel sound-work. Ho preso spunto da altri musicisti sperimentali e in seguito, dopo la laurea, ho iniziato a mia volta a sperimentare con i materiali, loop di nastro, locked grooves e a usarli per creare pattern ritmici e costruire tracce. Ho capito che c’era una vera “scena” iniziando a cercare i dischi di Steve Reich, John Cage, Delia Derbyshire e del BBC Radiophonic Workshop, tutti artisti che trovavano il modo di rendere familiare all’ascolto ciò che in realtà non lo era affatto. D’altro canto amavo gli artisti dub e reggae come Lee Scratch Perry, Jah Shaka e Burning Spear e direi che inizialmente era proprio quella l’area musicale che mi interessava. Non cercavo però di replicare quel tipo specifico di musica. C’era il piacere di ascoltare il dub e adottare le qualità esperienziali del suono, il suo ethos, ma per portare quegli elementi in un’altra area, quella della sperimentazione. Potresti chiamarla musica concreta, ma onestamente non sapevo che era quello che stavo facendo in quel momento. 

Hai spesso costruito installazioni sonore a tuo nome, ma collabori anche con musei e altri artisti come per esempio il CAPC – Museo d’Arte Contemporanea di Bordeaux, dove hai ultimamente sonorizzato l’opera “Naming The Money” per la grande artista, pittrice Lubaina Himid. Quali sono i criteri con cui scegli le commissioni e in generale le collaborazioni? 

Anzitutto trovo sempre interessante lavorare con altri artisti. In secondo luogo, è sempre bello essere invitati a collaborare. Certo dipende da chi è l’artista, da quali sono i suoi obiettivi e da quanto spazio lasciano a me per sperimentare. È sempre importante lavorare con altre persone per ampliare il proprio potenziale, inoltre – come “non-musicista” in senso classico – sono interessato a lavorare con violoncellisti, cantanti, chitarristi, sassofonisti che son disposti a collaborare senza preconcetti, perché ciò crea uno “Spazio Terzo” in cui possiamo entrambi ampliare le nostre pratiche. 

I temi politici contemporanei innervano i tuoi lavori, da sempre sei politicamente schierato sui temi della giustizia sociale e del razzismo non solo nel tuo Paese. La drammatica questione palestinese oggi più che mai ti vede in prima linea a denunciarne gli esiti tragici. Come hai visto cambiare la Gran Bretagna ed anche il tuo lavoro dopo la Brexit? 

La Brexit è stata un errore. Penso che avremmo dovuto impegnarci di più per una maggiore apertura e libera circolazione delle persone. Come figlio di immigrati che sono stati invitati qui per aiutare a ricostruire la Gran Bretagna del Dopoguerra, la Brexit è particolarmente offensiva e triste perché risulta autodistruttiva, per esempio già ne soffrono gli enti che hanno bisogno di personale negli ospedali e nelle fattorie. La Brexit significa che dobbiamo metterci in coda in una fila diversa all’aeroporto quando viaggiamo in Europa e nel mondo, il che è irritante e sta rendendo assai più complicato viaggiare per tutti, in particolare per noi musicisti e i nostri tour all’estero. Come esseri umani, dovremmo essere consapevoli di ciò che accade nel mondo e di come ciò influenzi non solo noi, ma la nostra più ampia comunità di persone. Quindi la mia pratica e le mie convinzioni sulla giustizia sociale sono semplicemente collegate al fatto che sono un essere umano che vive su questo pianeta: non posso fare a meno di essere consapevole di ciò che sta accadendo e di provare empatia per chi è costantemente sotto minaccia. Non posso chiudere gli occhi. 

Hai speranze o comunque nutri una prospettiva più ottimistica dopo la recente vittoria elettorale dei laburisti? La recente introduzione dell’ESTA per i cittadini europei (12 euro di “pizzo” a persona) è una pessima notizia. La domanda vale sia per la società inglese in generale che per il mondo dell’arte antagonista a cui tu appartieni? 

Hmm… sono politici! Il partito laburista è composto da politici. Non credo che la cultura del cinema indipendente o della musica underground o delle arti saranno necessariamente supportate. L’attuale governo sta già proponendo tagli alle sovvenzioni per il pagamento del combustibile invernale per gli anziani, affermando che “vanno prese decisioni difficili”! In questo clima è improbabile che le arti prosperino. Tuttavia il tempo lo dirà, i politici vanno e vengono, quindi la mia fiducia è solo nelle persone. 

From Signal To Decay: Volume 2 è un album splendido ma è soprattutto godibilissimo, una musica da ascoltare attentamente a casa e/o da ballare nei club come è accaduto al tuo concerto al Meakusma, quando dal primo all’ultimo minuto il pubblico ha danzato incessantemente. Dopo le varie esperienze cui abbiamo accennato nell’introduzione, come sei arrivato a produrre una sintesi sonora così stratificata, elaborata e danzante? 

Mi sono semplicemente impegnato con gli elementi che ho trovato piacevoli e interessanti da suonare, spesso si tratta solo di ciò che mi sembra giusto. C’è una gran differenza tra creare in studio e presentare una performance. Sto progettando opere per diversi ambienti come gallerie, musei, festival, quindi un club ha un altro tipo di aspettativa. Se sto suonando in una venue come il Cafe OTO a Londra, so che il pubblico sarà seduto e davvero disponibile a un viaggio sonoro atonale molto ipnotico, ritmico, armonico e strutturato: posso osare con suoni campionati dalla tv, dalla stazione radio o letture giustapposte a suoni ambientali. Tuttavia, non mi piace essere rigido al riguardo, si tratta molto di essere reattivi allo spazio ed alle persone presenti, ma ammetto che la risposta del pubblico spesso mi sorprende.

Nel 2023 hai pubblicato From Signal To Decay: Volume 5, 40 minuti suddivisi in due lunghe suite dall’umore decisamente più dark. Ci racconti come sono nate?

In questo disco ho lavorato principalmente con il suono dello spazio circostante: le registrazioni sono state effettuate durante la mostra alla galleria Goldsmith’s CCA, attingendo all’architettura sonora dell’edificio e all’ambiente esterno, compresi i suoni della strada riprodotti all’interno dello spazio espositivo. Le frequenze e i suoni si sono come congelati in quella particolare presentazione. Ma c’è stata anche l’eliminazione di molti elementi, il che lo fa apparire più “scuro”, anche se in realtà io non lo penso in questo modo, bensì lo vedo più atmosferico e pesante. È una serie di movimenti che sto cercando di elaborare, non accontentandomi solo di questo senso di oscurità.

Quali sono i tuoi progetti artistici per il futuro e c’è la possibilità di un tuo tour in Italia il prossimo anno?

Lavorerò a un pezzo per il quarantesimo anniversario di “The Thin Black Line”, una mostra innovativa di opere di 11 artiste nere, curata da Lubaina Himid. Mi è stato chiesto di creare un composizione per lo spazio teatrale della galleria ICA di Londra  e una scultura cinetica per la stessa sede. Sì, mi piacerebbe fare un tour in Italia magari con il Black Industrial Research Group: Aniruddha Das, Gary Stewart, Oliver Fukes e Junior e Yiadom-Boakye con cui ho già lavorato.

Il mio progetto è di continuare a creare musica e progettare più installazioni sonore ovunque sia possibile. Voglio continuare a creare cose, interagire con altri artisti e collaboratori. Più pezzi, più musica, più installazioni, più discussioni.