TREES, Sickness In
Alla scena doom di Portland (Oregon), una delle più interessanti e prolifiche degli USA, appartengono anche i Trees, quartetto dedito a uno stile scuro, mastodontico e torcibudella, che si ispira variamente a band come Corrupted, Sunn O))), Khanate, Moss… La formazione dei Trees include J. Krausbauer al basso, B. Holloway alla batteria, C. Johnson alle chitarre e L. Smith, che contribuisce con un cantato di estrema sofferenza, un po’ diverso dalla sua performance negli ottimi Atriarch. Nel catalogo dell’etichetta americana Crucial Blast sin dall’ep di esordio (Light’s Bane, del 2008), la band ha poi pubblicato il suo secondo album, Freed Of This Flesh, nel 2010 e questo Sickness In nel 2012.
Analogamente alle precedenti uscite, Sickness In si compone di due brani monumentali che, come suggerisce il titolo, per circa 28 minuti vi caleranno in uno stato di oscurità fumosa e tossica e di malessere feroce, un tunnel nero nel quale avanzerete con fatica estrema e senz’alcuna luce al termine. A meno che non interrompiate la musica, sempre che riusciate a uscire dallo stato ipnotico in cui facilmente cadrete.
Coi Trees e i loro due nuovi brani, “Cover Your Mouth” e “Perish”, si soffre immersi nella cacofonia della palude nera pece del feedback, che emana – come bolle di gas venefici – le vibrazioni quasi solide di riff mastodontici, ultra-distorti e dolorosamente lenti, le invocazioni straziate e maligne della voce di Smith e la ritualità lenta delle percussioni, che segnano il passo stremato della melodia. Esiste una melodia, sì, seppure sinistra, un minimo di groove nella sequenza dei riff, anche se questa tende ad annegare nel turbine psicotico e rombante del rumore di fondo drone, facendo quindi sembrare questi brani quasi frutto di una improvvisazione. Ma in modo quasi animalesco la mente riconosce la ripresa del ruggito dei riff come suo linguaggio e alla fine non si perde nel marasma oscuro del suono.
In un simile contesto, pertanto, l’inserimento di sonorità atmosferiche va benissimo. E per la loro musica pesante, rituale e minimalista, i Trees scelgono di adottare suoni sinonimo di maestosità, come ad esempio il canto particolare dei monaci tibetani che si coglie nella lunga introduzione alla seconda traccia e che rappresenta pure un trait d’union con gli Atriarch. Questo canto è spettrale e quasi irreale nel suo riecheggiare, ma si impone sullo stridore delle chitarre, sul rombo sordo del basso e sui rintocchi a morto della batteria, fragorosa e riverberata anch’essa per il frinire dei cembali. In questi frangenti dal tunnel nero si viene proiettati nell’immensità e si respira, ma questa vertigine dura pochi minuti. Poi, con mente e corpo, si ripiomba nel buio, nel luridume e nel male raccontati da questa musica devastante.
Se i Noothgrush vi sembrano troppo veloci ed allegri, se vi dilettate di Corrupted, Sunn O))), Khanate, Moss, ma anche di Stumm, Hell, Monarch, e se vi prendono bene i momenti di blackened drone-doom più cupo in Reclusa, allora prolungate la vostra agonia e datevi ai Trees.