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Tre volte Aaron Turner

KEIJI HAINO + SUMAC, Into This Juvenile Apocalypse Our Golden Blood To pour Let Us Never

AARON TURNER, To Speak

AARON TURNER & JON MUELLER, Now That You’ve Found It

Mi hanno sempre destato non poca perplessità le collaborazioni reiterate. E tanto più i dischi che le fotografano. Perché ritengo che tutto quello che porta con sé la magia dell’incontro la prima volta (l‘effervescenza, il gioco, e finanche l’inconsapevolezza data dal non sapere cosa aspettarsi dall’altra parte e quindi la maggior libertà di movimento che ne deriva) è difficile che torni a riproporsi con la stessa intensità all’incontro successivo. In questo caso siamo addirittura alla terza prova assieme. E l’aurea mediocritas incombe come c’era da aspettarselo. Intendiamoci, è tutto di gran classe, si sente che sia i Sumac di Aaron Turner, sia il man in black giapponese Haino, sono figure di comprovata esperienza: svagate jam free con riverberi sciropposi, imbozzolamenti noise con artigli intenti a districarsi dalla lanugine, parti più meditative con ombre che si infittiscono… Ma a mancare è un qualcosa che si stringa attorno a una visione. Non contesto la durata (si sfiora l’ora). Per l’idea di suono che qui si insegue, a metà via tra lo sferzante-primitivo e l’afflato cosmico dello sguardo che sconfina, è giustificato andar per le lunghe. Non ci sono però le vere deviazioni dal percorso, punti in cui la faccenda si ravviva di fiamma in maniera decisa. Troppo ansioso di piacere e pertanto innocuo. Va decisamente meglio con il disco in solo di Turner che, pur nel suo esser derivativo, ha l’intensità dell’attimo presente e meno costruzione apparente. Si tratta di sette composizioni per sola chitarra, trattata tramite pedali ed effetti vari, che potremmo collocare dalle parti delle mille e una sfumature del rumore. Sì, rumore “asciugato” a dovere per slanciare la silhouette ma sempre dai moti ribollenti, passati alla trielina. Immaginatevi una cosa da labirinto cieco, con suoni incrostati d’elettricità che accrescono e diminuiscono la loro presenza sul campo senza muoversi troppo dalla gamma dei grigi e dell’opaco ravvivato in sbuffi di trasparenze. Un disco che nei suoi momenti migliori (favoriti, è il caso di dirlo, dall’ottima ripresa sonora effettuata da Randall Dunn nei suoi studi) ricorda quel noise con ridottissimi spazi di manovra e al contempo solennemente sospeso della Corpus Hermeticum. Un po’ folle l’idea dell’etichetta di stampare il solo vinile (è un doppio): 45 Euro di spesa con la spedizione mi paiono troppi. Ma cos’è? Un gioiello? L’ultimo dei tre lavori, della coppia Turner-Mueller, è quello che mi ha convinto di più per la capacità che ha di tirarsi dietro la bellezza di mondi nascosti. Chitarra che erutta segmenti lividi di fuzz e distorsione come in una crescita arborea; oppure in deliberata modalità di frammentazioni minime, frugali, che scompaiono dietro la loro ombra o muoiono incerte. A fianco, nell’ampia spaziatura bianca che dà al tutto un sapore vagamente rituale, delle carrucole percussive etno-folk e dei campanacci à la Sun City Girls. Un insieme di movenze che lambiscono un’idea di free rock votato all’inquietudine e fatto di suoni feriti e uggiolanti. Ma con quel brio stranito che ogni volta accompagna quei fenomeni visibili solo in particolari condizioni di luce. Recuperatelo perché è un piccolo lavoro ma ben fatto.