Tre italiani a Transmissions XIII: Valentina Magaletti, Laura Agnusdei, Blak Saagan
Valentina Magaletti, batterista, vive da più di vent’anni a Londra, dove ha trovato la sua dimensione artistica ideale fra collaborazioni eccellenti (Nicolas Jaar, Raime, Thurston Moore, fra i tanti) e progetti come Tomaga (creato assieme al defunto Tom Relleen bassista di The Oscillation) UUUU (con Graham Lewis e Matthew Simms dei Wire e Thighpaulsandra), Moin e Vanishing Twin.
Valentina giovedì sarà fra i protagonisti della seconda serata dell’edizione 2021 di Transmissions, all’interno di una performance che la vedrà impegnata assieme ad altri tre expat, Marta Salogni, Andrea Belfi e Francesco Donadello (che è anche il curatore della rassegna di quest’anno).
Ti abbiamo ascoltato suonare psichedelie in vari formati e colori, krautrock, hai allestito collaborazioni importanti nel mondo dell’elettronica, però so che ti definisci essenzialmente una batterista jazz: da dove viene il suono di Valentina Magaletti, qual è la tua formazione?
Valentina Magaletti: Il mio suono viene da una serie di fattori relativi alla continua ricerca sonora e personale. La mia musica è un continuo scorrere di frequenze ed immagini assemblate in una sorta di collage che definirei (addossandomi il rischio di passare per pretenziosa) geo-esistenziale.
Vanishing Twin, quello che – se sei d’accordo – possiamo definire il tuo attuale gruppo, invece è forse la tua cosa più “pop”: quali sono i riferimenti musicali che accomunano i membri della band? Cosa vi lega agli Stereolab?
Jazz, pop, rock o qualsiasi altra etichetta relativa al genere non credo abbia valenza da un punto di vista artistico. Serve ai negozi di dischi e ai giornalisti pigri. Tutti i miei colleghi che suonano in Vanishing Twin sono avidi ascoltatori di musica, senza alcun limite. Il legame con gli Stereolab è materno, quasi. Sono carissimi amici e ci stimiamo artisticamente a vicenda.
Io ho avuto solo l’onore di studiare l’opera e registrare l’attrito di legno, metallo e gomma sulla batteria di porcellana. Il secondo disco uscirà il prossimo anno sempre per l’etichetta francese je ne sais quoi.
Molti dei dischi che escono in questi giorni sono figli della pandemia: alcuni suonano fortemente intimistici, altri dipingono scenari distopici, alcuni suonano auto-terapeutici, altri ancora sembrano il frutto di un’energia vitale in qualche modo repressa: tu cosa hai fatto durante il lockdown?
Ho lavorato molto su me stessa e sono riuscita a convertire in pastrocchi sonori i due anni forse più’ assurdi e duri della mia esistenza.
Puoi anticiparci qualcosa sulla tua performance a Transmissions? Sarà totalmente frutto di improvvisazione o c’è qualcosa di preparato in precedenza con gli altri musicisti coinvolti?
Sarà un dialogo tra persone care con cui trascorro molto tempo a Londra (Marta Salogni), un grande batterista italiano trapiantato a Berlino (Andrea Belfi) e un completo sconosciuto per il momento del quale ho avuto modo di apprezzare il lavoro solo on line per ora (Francesco Donadello).
Di Laura (compositrice di musica elettroacustica e sassofonista di stanza a Bologna, in forza per 5 anni ai Julie’s Haircut) abbiamo parlato in occasione dell’esordio, che abbiamo avuto l’onore di far ascoltare in anteprima.
Quando hai deciso di fare del tuo sax un mutante?
Laura Agnusdei: Non penso di averlo proprio mai deciso, ma forse ho “razionalizzato” il fatto che del sax amavo soprattutto la sua flessibilità timbrica, il suo aspetto mutante appunto, quando ho dovuto scrivere la mia “master proposal” per l’Institute of Sonology. Soffermandomi a pensarci ho capito che era proprio quello che volevo esplorare: come muta il suono degli strumenti acustici tramite la tecnologia? Come convivono e si compenetrano la dimensione acustica con quella digitale e quella analogica? Che ruolo mutante può svolgere la microfonazione? E soprattutto: quali storie posso raccontare all’incrocio di questi mondi sonori? Molte delle cose che ho fatto fino ad adesso sono tentativi di risposta a queste domande.
Di recente mi sono imbattuto nel nuovo – secondo me godibilissimo – disco di Jason Sharp, altro “sassofonista aumentato”. Sono affascinato anche da Colin Stetson come autore di colonne sonore. C’è qualche artista che – anche indirettamente – ha influenzato la tua decisione di utilizzare il tuo strumento in modo non convenzionale (ammesso che esistano le convenzioni, ma ammettiamo che storicamente non si suona così)?
Certamente il suono di Albert Ayler e quello di Ornette Coleman sono stati tra i primi a farmi vedere nuovi mondi. Jason Sharp l’ho visto al Rewire nel 2019, non male! Colin Stetson è uno dei miei eroi, ai suoi concerti piango sempre, ma non penso si senta una traccia fortissima del suo lavoro in quel che faccio. Già che siamo in argomento cito altri sassofonisti che mi hanno impressionato recentemente e non, anche se per motivi diversi: Christine Abdelnour, Antonio Raia, Riccardo Marogna (specialmente con il suo progetto “Infernal Mosquitos”).
Ho amato molto gli artwork che hai usato per Laurisilva e lavori collegati. Trovo che i tuoi disegni siano in qualche modo ingenui ma stupendi. Sei un’appassionata? O hai fatto delle scuole? Sei una di quelle persone a cui qualche dio ha messo la mano sopra la testa e che dunque riescono a essere creative indipendentemente dai mezzi a loro disposizione?
La prima volta che ho disegnato con le chine è stato alle medie durante l’ora di arte, ma era solo con il colore nero. Mi rimase tuttavia molto impressa questa tecnica del riempire gli spazi con tanti piccoli segni sottili e in generale amo l’arte figurativa piena di linee curve, come le decorazioni in stile liberty ad esempio. Per i miei 18 anni poi delle amiche mi regalarono una scatola con varie chine colorate e molto sporadicamente iniziai a fare qualche disegnino. È stato nel 2015 che ho iniziato ad intripparmi un po’ di più e ho involontariamente creato una mia specie di stile, ribattezzato poi Organic Life Patterns. Sono delle improvvisazioni, raramente faccio prima uno schizzo a matita o simili, inizio a disegnare una forma con le pilot, la riempio di cerchiettini con le chine e da lì continuo a sentimento. E sì, sono ingenuissime, perché lo spirito con cui le faccio è proprio quello, voglio solo rilassarmi e fare dei disegnini, come i bambini! Alcuni di questi disegni sono stati poi animati da Axel Zani e sono diventati i visuals dei miei concerti.
UBI CONSISTAM è un progetto che comprende cinque composizioni acusmatiche frutto dell’esplorazione sonora di altrettanti luoghi di Bologna. Non c’è ancora nulla in ascolto, il lavoro esce infatti il 25 novembre. Cosa dobbiamo assolutamente sapere su di esso? Direi che sarà qualcosa di diverso, anche per la presenza di alcuni, eccellenti ospiti.
UBI CONSISTAM è un progetto dedicato all’esplorazione acustica di Bologna e il 25 novembre esce un libro che è una guida per un tour a 5 tappe “sonorizzate” all’interno della città. Questi 5 luoghi sono molto diversi tra loro (due sono all’interno del Cimitero Monumentale della Certosa, poi c’è un tunnel, una cabina telefonica e il portico di un condominio di edilizia popolare). Comprando il libro si possono downloadare 5 tracce audio ed ognuna di esse è pensata per essere ascoltata in cuffia nella location dove sono stati registrati i suoni da cui è composta, sfruttando diverse prospettive microfoniche. Tutti i suoni strumentali che sentirete sono acustici e oltre al mio sax troverete Stefano Pilia al contrabbasso, Enrico Malatesta al rullante/percussioni/oggetti, Flavio Zanuttini alla tromba e Giacomo Bertocchi al clarinetto. Quello che dovete assolutamente sapere, oltre al fatto che il libro contiene le illustrazioni grafiche di Giulia Polenta che sintetizzano in immagini l’esperienza sonora, è che UBI CONSISTAM è prima di tutto un invito: un’esortazione a lasciare le dimensioni dell’ovunque internettiano, un invito ad abbandonare gli schermi per riscoprire un qui ed ora localizzati, attraversati ed attraversabili, spazi in cui il suono possa agire ed essere agito, libero di costruire nuove narrazioni. Così se da un lato le composizioni riassemblano e scardinano le prospettive aurali degli strumenti negli spazi, disegnando percorsi inediti per l’ascoltatore, l’obbiettivo ultimo del progetto è anche quello di innescare una nuova consapevolezza delle potenzialità acustiche che la città offre.
Cosa proporrai al pubblico del Transmissions? Puoi dare qualche anticipazione?
Sicuramente il set comprenderà almeno un brano da Laurisilva, ma il resto sarà il frutto di nuovo materiale che sto maneggiando nei live in solo da quest’anno. Non escludo ci possa essere qualcosa di mai suonato prima dal vivo, perché finalmente in questi giorni ho tempo di rimettermi al lavoro in modalità “carta bianca”.
Saliamo in carrozza assieme a Samuele Gottardello, in arte Blak Saagan. Il biglietto da obliterare a ogni costo quest’anno è Se Ci Fosse La Luce Sarebbe Bellissimo, il suo secondo album uscito qualche mese fa per Maple Death Records in collaborazione con Kakakids. Il suo viaggio personale ripercorre il Caso Moro, su trasfiguranti binari dark psych-kraut e non solo, e approda alle tredicesima edizione del Transmissions Festival nella serata conclusiva di sabato 27 novembre.
Come sei passato dalla fanta-scienza di A Personal Voyage alla cronaca nera di Se Ci Fosse La Luce Sarebbe Bellissimo?
Samuele Gottardello: Dai documentari di Carl Sagan sono passato alle audizioni dell’ultima Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Caso Moro in maniera piuttosto naturale. Ambedue gli argomenti fanno parte dei miei interessi. Forse perché mi piacciono le narrazioni, soprattutto quelle che lasciano spazio all’immaginazione. Ora che ci penso una delle connessioni tra il cosmo di Carl Sagan ed il Caso Moro è che nessuna delle due dimensioni è stata ancora esplorata e spiegata del tutto. Una grande opportunità per raccontare una storia.
A volte la non aderenza alla realtà è la maniera più “fedele” per raccontare la storia. Vale anche quando questa storia va messa in musica?
Per me assolutamente sì. Devo dire che non ho mai avuto l’intenzione di redigere la cronistoria del Caso Moro. Non sono un divulgatore e nemmeno un esperto di questo o quell’argomento. Sono un appassionato di storie e, per raccontare le mie, prendo spunto da fatti tecnico-scientifici o vicende storiche reali, o plausibili. Se dovessi scrivere un saggio o dovessi fare ricerca storica sarei tenuto alla massima precisione ed aderenza alla Verità. Per fortuna però io faccio musica e racconto storie, quindi non è detto che la verità mi interessi. Come dice Werner Herzog, se una storia dovesse rappresentare la Verità allora l’elenco telefonico di Manhattan sarebbe il libro più attendibile mai scritto. Peccato che sarebbe anche il più noioso. Del Caso Moro mi hanno appassionato molte narrazioni, dalla già citata Commissione Parlamentare d’Inchiesta di cui mi sono ascoltato le audizioni che si trovano su Radio Radicale, ai libri di Flamigni, Fasanella, Cucchiarelli. Poi libri e romanzi anni Settanta, tanto Scerbanenco. E naturalmente il cinema, non solo giallo/thriller e poliziottesco, ma visioni disordinate del cinema italiano anni Settanta. Nel disco, quindi, si mischiano volutamente fatti e teorie, e dopo un momento iniziale in cui descrivo un contesto, mi concentro sulla vicenda della persona Aldo Moro, quello che ha vissuto dentro, intimamente, quello che ha provato possiamo solo immaginarlo. Anche attraverso le sue lettere. Decisamente il suo ruolo in tutta la tragica vicenda è quello di una pedina che è stata sacrificata in un gioco molto più grande. Lui lo ammette, nelle ultime lettere, ci gira intorno all’argomento, però poi – alla fine – tutto ciò non è più importante, la cosa importante è salutare i propri cari, farsi tenere stretto. E quella frase che mi ha colpito fin da subito: se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Spero l’abbia trovata.
Mezzi (organo Farfisa, drum machine, synth) e riferimenti stilistici (library music, cosmic psychedelia, krautrock) restano a grandi linee gli stessi, ma nell’insieme l’album è più mosso e vario rispetto al suo predecessore. Quali erano gli stimoli e gli obiettivi puramente sonori? E quanto essi si sono eventualmente piegati, da subito o successivamente, a quanto raccontato attraverso le note?
In realtà qualcosa ho cambiato, alla Roland 606 ho messo vicino una Roland 505, che è abbastanza odiata in giro, però ha aggiunto delle percussioni post-punk ad alcuni brani del disco. Questo era decisamente uno degli obiettivi che mi proponevo a livello sonoro. Inoltre volevo aggiungere frequenze basse al mio suono e quindi ho massicciamente usato il Model D. Ad ogni modo dopo A Personal Voyage volevo esplorare una dimensione diversa a livello espressivo. Cercavo qualcosa che fosse a tratti meno gradevole, meno rilassato. Volevo aggiungere un lato cupo alla psichedelia. Proprio mentre stavo cominciando a buttar giù le prime note ed i primi pattern di percussioni, ecco che mi prestano il libro “Morte di un Presidente” di Cucchiarelli. Ci rimango invischiato, non tanto alle tesi del giornalista quanto all’argomento. Ed un po’ alla volta comincio a sviluppare un immaginario che mi risulta utile a comporre. Decisamente è stato un bel momento, per me questi sono i momenti più belli, è come se il primo viaggio me lo facessi proprio io. Infine devo dire che, e questo l’ho realizzato dopo, mentre ci stavo lavorando, il 1978, anno delle vicende narrate nel mio disco, è un anno particolare nella musica. Una specie di anello di congiunzione tra musica psichedelica, elettronica, kraut, new wave, dub ed altro ancora.
Da questi tredici brani affiorano influenze fortemente intrecciate con il mondo del cinema, dai poliziotteschi ai grandi compositori delle epopee western, dagli zombi di Romero e Goblin alle brigate a volte più carpenteriane che rosse. Nel caso Se Ci Fosse La Luce Sarebbe Bellissimo fosse un film, e magari il film dei tuoi sogni per quanto rievochi un incubo, chi lo dirigerebbe e interpreterebbe?
La domanda è bellissima, ma non è facile rispondere. Il fatto è che sono un divoratore di Cinema, mi piacciono moltissimi film ed avrei quindi molti nomi da fare, troppi.
Quanto tempo abbiamo? Quante righe?
Senza “disturbare il sonno dei morti” e quindi escludendo i nomi di quelli che sono mancati, direi che servirebbe un regista che riuscisse a mescolare atmosfere gotiche a dimensioni psichedeliche, nel film ci dovrebbero essere tensione psicologica e momenti d’azione. Di stranieri contemporanei mi vengono in mente subito Ben Wheatley, regista di A Field In England, una specie di thriller psicologico e psichedelico, e Yorgos Lanthimos, un altro visionario, gotico ed a suo modo psichedelico. Ma il regista di un film così dovrebbe essere per forza italiano, quindi direi che, escludendo Fulci e Caligari per i motivi sopra citati, ci potrebbe stare Matteo Garrone, Dogman è un gran bel film e mi piace che abbiano scelto un attore non professionista come protagonista. Come attori mi piace molto Marco Giallini, lo vedrei bene nella parte di Moro. Per le BR prenderei attori giovanissimi, ventenni, al massimo trentenni. Vorrei che spiccasse la differenza d’età. Uno scontro tra generazioni oltre che tra idee.
Per i live a supporto di A Personal Voyage ti eri mosso all’epoca in completa solitudine. Come ti ascolteremo-vedremo per le prossime occasioni, incluso il Transmissions Festival?
Rispetto a quelli di A Personal Voyage, i brani di Se Ci Fosse la Luce SarebbeBellissimo sono più complessi. Quindi dal vivo, per ora, eseguo quelli che riesco a fare da solo. Ho in progetto però di preparare un live con altr* musicist* che mi possano aiutare a portare dal vivo tutto l’album, esattamente come l’ho registrato. Saremo pronti per la primavera-estate del 2022: il primo live con la nuova formazione estesa sarà al Roadburn Festival.