Tre giorni di musica e natura al Terraforma, 29-30/6, 1/7/2018
Castellazzo Di Bollate (MI), Villa Arconati.
È la quinta edizione del Terraforma, festival di musica elettronica e sperimentale a due passi da Milano. Per la precisione a Villa Arconati, nel comune di Bollate. La location non è un dettaglio: i palchi, le strutture, le aree per mangiare, tutto si trova nel bosco di quest’antica residenza settecentesca. Il festival ha giustamente deciso di investire su di essa e valorizzarla: ogni anno nuovi progetti vengono portati a termine, come il labirinto di siepi adibito a palco che è stato ricostruito sulla base di antiche mappe. Il risultato è un particolare contrasto/fusione tra musica e natura. La sostenibilità è sempre stata uno degli obiettivi principali, con una crescente attenzione a piccole e grandi strategie per ridurre l’impatto ambientale della tre giorni. Nel complesso il Terraforma è in costante crescita, con un record di ottomila presenze e un’organizzazione quasi perfetta. Basti pensare che più della metà del pubblico proveniva da Paesi stranieri, un’audience a cui vanno fatti i complimenti per l’attenzione e la curiosità, coniugate in ogni caso con la voglia di divertirsi. Il programma del festival è estremamente ragionato, ogni momento della giornata è stato calibrato a seconda dell’orario e del palco prescelto (sono tre, ognuno con una funzione diversa): un mix tra progetti più insoliti da un lato e clubbing dall’altro, tra i quali è indispensabile riuscire a trovare un equilibrio.
In particolare, per chi viene da fuori e sosta nel campeggio come me, c’è la possibilità di calarsi in una dimensione completamente “altra”, che unisce gli avventori in un luogo sospeso, fuori dal normale fluire del quotidiano.
Day 1
Mentre finisco di montare la tenda, sento in lontananza i synth di Imaginary Softwoods (John Elliott degli Emeralds). Dev’essere stato un bel concerto quello di apertura del festival, al tramonto e con soffici melodie. Subito però mi aspetta uno dei “pezzi grossi” del cartellone: la collaborazione tra i Plaid e Felix Thorn. Quest’ultimo costruisce macchine che suonano, cioè assemblaggi di pezzi di batteria, canne da organo, campanelli e tanti altri oggetti di uso più o meno quotidiano, che tramite dei meccanismi producono appunto dei suoni. All’inizio la “Felix’s machine” sembra un’enorme scultura dorata, o una sorta di totem, considerato che la performance si svolge nel labirinto di Villa Arconati e che quindi siamo disposti tutti in cerchio con gli occhi puntati verso l’alto. Poi piano piano ci si rende conto che dove una luce si accende, lì un meccanismo è in azione: un pedale che batte, una bacchetta che preme il tasto di uno xilofono e via discorrendo. Insomma, inizio a collegare i suoni – ovverosia la musica che i Plaid hanno composto per l’occasione – ai pezzi della macchina in funzionamento, e il risultato è sorprendente. Riportare i suoni digitali alla loro radice analogica, o forse, ancora meglio, confondere i confini, ecco cosa fa la Felix’s machine, che sembra un essere autosufficiente ma che in realtà deve essere azionata… dall’uomo? O dal computer? Ce n’è abbastanza per rifletterci un bel po’. Sicuramente la varietà, il ritmo e l’intensità dell’esibizione non hanno nulla da invidiare a un normale live, e ciò dona un senso nuovo alla musica del duo inglese (considerato ormai “stanco” da più parti).
Finita la performance, vado a prendermi una birra prima di immergermi nell’ambient-techno di Lanark Artefax, nuova promessa di Glasgow… ma proprio in quel momento sento provenire dal main stage l’inconfondibile motivo di “Win In The Flat World” di Lorenzo Senni. Che succede?! Scopro che l’artista scozzese ha perso il passaporto e non ce l’ha proprio fatta a venire, e così è stato sostituito Senni. Devo dire che mi fa molto piacere, amo le sue melodie cervellotiche, la sua personalissima deviazione della trance, le sue (s)composizioni in perenne tensione. Inoltre Ruggero Pietromarchi, l’ideatore del Terraforma, è socio della sua etichetta Presto!?, quindi il live ci sta tutto.
Mi sposto ora verso il terzo palco, chiamato “dummy tent sound system”, per ascoltare Nkisi. La musicista di origini congolesi, cresciuta a Bruxelles e di stanza a Londra, ha fondato l’etichetta-collettivo NON: un progetto musicale e politico, che ha come scopo quello di riunire artisti di discendenza africana. Il suo set è molto potente e riesce nel suo intento di coinvolgere il pubblico: ritmi afro e vagamente cumbieri, omaggi all’Italo-disco e momenti di vera e propria gabber. Insomma, tutto purché sia ballabile. Lo stile c’è, ma anche il rischio di mettere un po’ troppa carne al fuoco.
Ritorno al main stage per l’artista più atteso: Jeff Mills col suo TR-909 from Detroit, uno dei padri della techno. I suoni taglienti, l’eleganza. Tiene il pubblico nelle sue mani con dei sali-scendi di intensità e degli stop&go che mandano tutti in visibilio. Nella prima parte del set le sonorità liquid sono in maggiore continuità con la sua produzione attuale, tutta incentrata sul tema del “cosmico”. Nella seconda parte tende a compiacere maggiormente il pubblico dandogli quello che vuole, quindi una maggiore “cattiveria”, ma senza mai perdere il suo touch. Sono le quattro e mezza, mi incammino lungo il sentiero all’interno del bosco che porta al campeggio, bisogna ricaricare le pile per la lunga giornata di domani.
Day 2
Come non detto. Alle otto e mezza il sole a picco sulla tenda rende impossibile restarci dentro. Dopo la colazione a Garbagnate, si ricomincia con il programma. Il primo della giornata è Marco Shuttle, un ritorno per il Terraforma. Il suo set inizia verso le dieci e mezza ed è perfetto per riaprire le danze, la sua techno delicata ingloba elementi jazz, psych e dub.
Tocca poi a Konrad Sprenger, musicista tedesco che ero molto curiosa di ascoltare. Riesco a trovare un lettino vuoto, mi ci stendo sopra e mi lascio trasportare dalle trame costruite dai synth e dalla chitarra, che vengono controllati dal computer e non sono suonati direttamente. I suoni cristallini che si sovrappongono inducono a una vera e propria peace of mind.
Sul palco principale c’è Valentino Mora, dj che si dichiara post-gender e che vive tra Berlino e Parigi. L’attacco è astratto e minimale, fatto d’assenze, per poi sfociare in un’ambient-techno intima e trascinante. Non posso vedere tutto il suo set perché mi aspettano le attività collaterali del festival: in un’area dedicata all’interno del bosco c’è il talk con Byetone: Herr Olaf Bender, uno dei fondatori della storica etichetta raster-noton (oggi raster media, dopo la separazione da noton). In una conversazione molto ricca e interessante, Bender ripercorre la nascita della label situandola nella specifica situazione della Germania Est, nel rapporto con altre forme artistiche e con lo spirito delle avanguardie. Riflette anche sui tempi attuali: troppe informazioni e connessioni rischiano di soffocare il processo creativo, i limiti che ha vissuto in gioventù sono stati anche una ricchezza. Per questo non ha mai voluto che la raster-noton crescesse più di un tot: ciò avrebbe significato snaturarla e gestirla in modo diverso, meno diretto. Più tardi, in serata, Byetone offre un live dai toni fortemente industrial, con un bel frastuono martellante e catartico.
Sarebbe il momento dell’attesissimo Donato Dozzy, ormai presenza fissa al Terraforma. Purtroppo la stanchezza mi impedisce di godermi il suo set, fatto di techno introspettiva e lisergica.
Sul main stage c’è poi Mohammad Reza Mortazavi con il suo tombak, una percussione persiana che si suona con una particolare tecnica manuale. Già ho avuto modo di ascoltarlo nel pomeriggio durante un workshop, dove senza alcuna amplificazione aveva dato prova di grande maestria, con il ritmo che trascinava i partecipanti costringendoli a battere le mani a tempo. L’impressione si ripete in serata, dove oltre al tombak ci sono anche due tamburi. La velocità e la molteplicità dei suoni che lo strumento riesce a produrre sono impressionanti, anche in questo caso i suoni digitali vengono riportati alla loro sorgente più arcaica. Basta vedere il pubblico saltare e ballare, unito in un unico flusso, per accendere una riflessione sulla connessione tra ritmi tribali e techno.
Al calar del sole, come in tutte e tre le giornate, è il momento del concerto nel labirinto. Accompagnato da un’installazione di luci c’è Gábor Lázár, ungherese che insieme al suo laptop presenta il disco Unfold. Fanatico del sound-design, a volte la sua musica risulta un po’ troppo fredda e sensazionalistica, quantomeno per i miei gusti.
Ci si inoltra nella serata e al palco-sound system c’è Batu da Bristol, uno dei fondatori dell’etichetta Timedance. Chiamatela dubstep o come volete, i bassi sono così saturi da rendere l’atmosfera surreale e sospesa, non danno tregua se non in poche occasioni. Ne risulta un mix stimolante, una sorta di drone-music per club.
La lunga chiusura del sabato spetta a Powder, artista giapponese che con la sua musica esorcizza le pesanti giornate lavorative in ufficio a Tokyo. Il suo stile è “dreamy” e cinematico, acid-house fatta di sonorità soffici e levigate in cui si inscrivono le ossessive ripetizioni di suoni meccanici. Music of the future.
Day 3
Durante la domenica si crea una situazione particolare. Dalle dieci e mezza di mattina fino al pomeriggio inoltrato tutto si svolge nel Sound System, che è un piccolo palco con un grande prato di fronte. Per la maggior parte siamo reduci da 48 ore di festival, a cui si aggiungono i milanesi interni alla scena della città più diversi artisti che hanno suonato nelle giornate precedenti. Ci si sente a casa, ci si distende su un telo all’ombra di un albero a riposare o a chiacchierare, uno accanto all’altro. Si crea un’atmosfera di comunità ed entusiasmo, sembra di rivedere le immagini dei gloriosi festival dei tempi andati.
Arrivo solo verso la fine del concerto di Daniele de Santis, tutti seduti in cerchio intorno alla sua batteria microfonata e collegata a pedali e macchine varie. Il suono delle percussioni processato elettronicamente dà vita ad un noise potente e ipnotico.
È poi il turno di Rabih Beaini, un altro ritorno per il Terraforma. Il musicista di origini libanesi, vissuto in Italia ma ora di stanza a Berlino, propone un set squisito in cui il ritmo fa da trait d’union. Con l’invocazione di luoghi e tempi lontani, con l’inserimento di campionamenti di strumenti tradizionali arabi (come il bouzuki) su basi minimal e ripetute, siamo trasportati in un de-pensare che ci riporta a radici ancestrali. Il pubblico si muove come in preda ad una trance.
Durante l’ora di pranzo c’è la selection vintage di Mino Luchena, tatuatore che vive a Milano: Carosone, Mina e tanti altri classici, scelti col gusto di chi vuol far divertire; ci si infiamma però sul finale con qualche chicca più moderna (Skiantos, Squallor, “Fegato, Fegato Spappolato” di Vasco!). È un tripudio.
Dopo di lui c’è una milanese doc, Paquita Gordon, anche lei presenza fissa al festival. Il suo sound ha radici fortemente black, siamo all’intersezione tra dub, dubstep e drum and bass con momenti house. I bassi caldi ti scuotono anche senza volerlo, i passaggi risultano sempre estremamente naturali, inserisce alla grande elementi come il suono del sax. Ha stile da vendere (e da alcune grida sul finale, credo fosse anche il suo compleanno).
Ci spostiamo un’ultima volta al main-stage. Don’t Dj è un artista e studioso tedesco che si fa molte domande: sul rapporto tra uomo e macchina, su quello tra le culture e in particolare con l’esotico, a livello di suono ma non solo. Il titolo di un suo disco suona già come una provocazione: Authentic Exoticism. Nel suo live di un’ora incastra abilmente glitch e minimal lo-fi con sequenze più ballabili, inglobando elementi appunto “esotici” come i flauti.
Si continua a ballare con il set sofisticato di Vladimir Ivkovic, prima del consueto live nel labirinto. Questa volta ci sono i VIPRA da Roma, anzi da Torpignattara. Il gruppo infatti ci tiene a situarsi in periferia, il loro unico ep uscito per Presto!? si chiama Musica Jao, come i suoni che escono dai sobborghi di Lisbona. Ma questa è la facciata, dietro c’è molto di più. VIPRA è in realtà un progetto complesso, con l’ambizione di prendersi gioco di tante cose. Il concetto cardine è quello di “Presenturo”, fusione di presente e futuro, che sta ad indicare il tempo attuale ma inteso come fallacia della misurazione oggettiva del tempo (la omonima canzone ripete ossessivamente: “non-trovi-tempo? cerca-meglio!”). Sul palco sono in tre: sulla sinistra un uomo vestito da donna con indosso un passamontagna, sulla destra un ragazzo adibito a colpire un tamburo sospeso in aria; dietro, al mixer, un’altra persona ancora. Lo show è pura pantomima: l’uomo sulla sinistra canta in un microfono spento, il ragazzo sulla destra ogni tanto assesta un colpo al suo tamburo, ma la maggior parte delle volte fa solo finta, compiendo ampi movimenti e bloccandosi prima dell’impatto. Sono estasiata dalla loro messa in scena, mi chiedo se sia una sorta di riflessione su cosa significhi proporre un live di musica elettronica oggi o se in generale amino prendersi in giro da soli e sconvolgere le aspettative. In ogni caso le loro quattro tracce sono uno strambo e alienante mix di rumori, voci registrate, beats e interferenze dal ritmo occasionalmente latineggiante.
A chiudere la serata per gli ultimi superstiti c’è la house di PLO Man. Qualcuno non vuole proprio accettarlo (sento camminare tra le tende e urlare “afterinoooo?!?!”). Ma come tante volte, è proprio quando inizi ad abituarti che è tempo di tornare a casa. È finita la bolla di Villa Arconati, si ritorna alla realtà.