Tre cassette su bioacustica, popoli virtuali e foreste nere (Berger, Michi, Duplant)
Viene fuori qualcosa dall’ascolto congiunto di questi tre album a cavallo tra bioacustica (Ludwig Berger), glossolalia (Francesco e Pietro Michi) e soundscape astratto (Bruno Duplant). Qualcosa che non sappiamo spiegare né nominare: del resto, se i primi due – accomunati dall’origine organica delle frequenze che rilevano – sembrano ricavati da (o spendibili all’interno di) un’installazione artistica, l’ultimo è invece organizzato attorno a una vaga ma deliberata musicalità. Eppure è come se queste produzioni, uscite in formato cassetta tra febbraio e aprile, fossero tutte sintonizzate su una stessa frequenza indecifrabile, allineate magicamente sotto a uno stesso dominio che trova riscontro nell’ambiente naturale in cui ci immergono, tra gli alberi di una foresta inospitale o di un bosco cui prestare devozione.
Nella corteccia di un albero
Di Ludwig Berger abbiamo già detto in occasione del recente Cargo, due lunghe tracce a cavallo tra drone e field recordings pubblicate dalla tape-label Canti Magnetici. Ma è con l’ascolto di questo Inumaki / Esuzaki che meglio si esplicita il vasto campo di interessi del sound artist e compositore tedesco, da qualche tempo residente a Milano: dalla bioacustica alla cosiddetta biotremologia, dall’entomologia alle tematiche ecologiche, dall’architettura alla psicogeografia. Si aggiunga che, nelle vesti di ricercatore e insegnante presso l’Institute of Landscape Architecture del Politecnico di Zurigo, Berger ha investigato il paesaggio sonoro dei giardini giapponesi, dei paesaggi urbani e dei ghiacciai, come testimonia l’operazione Melting Landscape, una classe di studenti che tramite l’impiego di idrofoni ha estratto (e poi riversato sul mercato discografico) il suono prodotto dallo scioglimento annuale dei ghiacciai delle Alpi svizzere.
Con la nuova cassetta – uscita per le edizioni della neonata Vertical Music, etichetta di sua proprietà – ci spostiamo dalla Svizzera al Giappone, nella piccola isola di Esuzaki, situata nella prefettura di Wakayama, là dove Berger ha applicato un microfono a contatto su un esemplare di Inumaki, una conifera appartenente alla famiglia delle Podocarpaceae. Per un’ora esatta, a intervalli irregolari ma costanti, sono brevissime, riposanti emissioni di un suono effimero. Se vogliamo giocare con l’immaginazione, queste frequenze ai limiti dell’illusorio sembrano i tentativi andati a vuoto di un flauto fuori uso. Ma ciò che davvero sorprende è il fatto che, di tanto in tanto, questi suoni privi di dinamica orizzontale manifestino delle strane e inaspettate piegature, quasi degli armonici naturali imprevedibili e sfuggenti. Tanto che non ci sarebbe da meravigliarsi troppo se qualcuno venisse a dirci che quelle che abbiamo ascoltato sono, in realtà, delle esplorazioni microtonali ottenute con un sassofono suonato ricorrendo a tecniche estensive, magari alla maniera di un Urs Leimgruber.
Particolare importante, che potrebbe fornire una chiave di lettura adeguata: pare che nel corso della registrazione, avvenuta tra le due e le tre del pomeriggio del 14 giugno 2018, fosse in corso una tempesta di vento di cui Ludwig Berger restituisce la risposta – per così dire – interna alla pianta. Siamo nella pianta, nella sua corteccia. E ci chiediamo dove realmente poggi il topic di Inumaki / Esuzaki: sulle proprietà acustiche dell’albero o sul vento che ne scuote i rami?
Tra un albero e l’altro
Insieme al succitato Cargo e a un altro paio di cassette, lo scorso febbraio Canti Magnetici ha pubblicato le Poesie Eugrughe, che consistono in una singola traccia lunga trenta minuti, composta dal sound artist Pietro Michi sulla base dei nastri a cui aveva lavorato il padre Francesco nel corso dei primi anni Novanta. Ebbene, siamo alle prese con qualcosa di inclassificabile e inaudito (o forse di inudibile, come avrete modo di verificare).
Va detto che, perlomeno nell’ambito delle musiche e dei suoni di cui ci occupiamo, aggettivi come quelli sopra sono fin troppo abusati: più in generale, dando adito alle forze omologanti che determinano la nostra cultura dell’ascolto, ci ostiniamo a definire strano o difforme tutto ciò a cui le nostre orecchie non sono abituate, e tralasciamo di considerare la categoria dell’inaspettato o di quel che in genere, consciamente o meno, viene da noi rimosso, dimenticato, trascurato. Ma come interfacciarsi con un ascolto del genere, talmente (e letteralmente) privo di materia da risultare a un primo impatto addirittura vano e non giustificabile? Con quali premesse partire? Le cose stanno davvero così: indossi le cuffie (obbligatorie), fai partire la riproduzione e aspetti che avvenga qualcosa. Puntualmente ti ritrovi con un sasso in mano. Ma la storia è un’altra e, come sanno i pochi fortunati che hanno fatto in tempo ad accaparrarsi l’edizione fisica corredata da un bel libretto esplicativo, merita di essere raccontata.
Le Poesie Eugrughe fanno parte di un più largo progetto avviato nel 1992 da Francesco Michi, musicista, sound artist, scrittore e, a partire dal 2009, coordinatore per l’Italia delle attività del Forum Klanglandschaft, associazione internazionale per il paesaggio sonoro. Quel progetto, chiamato I Popoli Virtuali e commissionato dal Volterra Teatro Festival, era volto a “creare e dimostrare i segni dell’esistenza di queste popolazioni virtuali”, la quale, continua Michi, “è supposta per convenienza”, frutto di una ricerca che sembra mettere in atto una sorta di etnologia fantastica, “sul confine tra il desiderio di realtà e l’immaginazione”.
Michi si mise al lavoro su una serie di installazioni, performance ed esibizioni che ruotavano attorno alla leggenda degli Eugrughi, una popolazione immaginaria “che vive in piccoli gruppi sparsi per l’Europa, particolarmente in Toscana”, e che si distingue per una cultura tipicamente orale, in cui la dimensione acustica ha addirittura preso il posto di quella visiva, istituendo i criteri di un’etica basata sull’ascolto e quindi sul rispetto. Le loro bandiere non sono più dei dispositivi utili a – per dirla con Elias Canetti – “contrassegnare come propria l’aria sopra di loro”: esse non sventolano, bensì emettono suoni.
Tra le pratiche e i riti degli Eugrughi, spiccano questi strani, assurdi recital che i poeti danno in piccoli boschi, di notte, dividendosi tra un albero e l’altro. Le Poesie Eugrughe sono dunque la rappresentazione di un recital intitolato “Il Bosco che Sussurra”, in origine registrato da Francesco Michi e poi ripreso nel 2017 dal figlio Pietro, che ha svolto un lavoro di riassemblaggio. Nell’arco di trenta minuti gli Eugrughi sciorinano fonemi essenziali, sussurri, unità minime di un linguaggio che non possiamo decodificare. Nient’altro. Se non infinite pause prossime al silenzio, cinguettii isolati e, in appena un paio di occasioni, un circuito elettrico basilare che mette in circolo una melodia scarica, estremamente debole e infantile.
È difficile stabilire se il linguaggio degli Eugrughi sia o meno rappresentato dai Michi come una forma di poesia sonora. Tuttavia, è bene che il mistero che avvolge queste Poesie resti tale, la loro funzione celata.
Al di sotto di un albero
And when the river dries
Will you bury me in wood
Where the river dries
Will you bury me in stone
Per una delle sue ultime produzioni – Chants de Mémoire, uscita in formato cassetta sull’australiana Hemisphäreの空虚 – il sound artist francese Bruno Duplant ha trovato ispirazione nella strofa che qui abbiamo posto in epigrafe, estratta da una canzone di Bill Callahan. Le due tracce, ciascuna di venti minuti, se riprodotte ai giusti volumi, ci trasportano subdolamente – ma senza possibilità di mediazione – in una foresta inospitale che ci vuole vittime.
In verità è un paesaggio sonoro pullulante di vita, dettato dal ronzio degli insetti e dal canto degli uccelli, dal gracidare delle rane e dal richiamo (simulato) dei lupi che si confonde con i sibili generati dal vento. Lo scrosciare di una pioggia insistente è accompagnato dal rombo minaccioso dei tuoni in lontananza. A questo insieme di registrazioni ambientali effettuate chissà dove, Duplant aggiunge trattamenti elettronici (anche in analogico) che determinano ora una lieve forma d’onda cui è un sollievo fare caso, ora degli zufolii, come di un rudimentale flauto primitivo. Ma, in contrasto con la fertile varietà di fenomeni, che è indice di un ecosistema rigoglioso, specialmente nella seconda parte, l’atmosfera diventa poco meno che terrificante, scandita da tonfi che hanno un qualcosa di sinistro e tombale. Capiamo di essere le vittime sacrificali di una tribù primitiva; legati al tronco di un albero, speriamo di sopravvivere e invece – di là – qualcuno scava la fossa in cui verremo sepolti. Sarà meglio tornare dalla silenziosa popolazione degli Eugrughi, gente solitaria ma tutto sommato accogliente.