TRAPCOUSTIC, Pearls
Fra gli ormai numerosi outfit musicali di Stefano Di Trapani sono pronto a scommettere che Trapcoustic sia quello a cui lo stesso sia maggiormente affezionato, oltre che quello in cui si senta più a suo agio, libero di scorrazzare fra i generi più disparati, di declinare con garbo il suo songwriting attraverso i molteplici riferimenti musicali, libero anche di mettersi a nudo come in quest’ultima prova in cui le accorate melodie vocali risultano protagoniste, accompagnate da una parte strumentale esigua se paragonata al precedente lavoro: poche pennellate, decise come quelle dell’artista sicuro del proprio segno.
Il confronto col disco uscito nel 2017 potrebbe limitarsi anche solo alle copertine, entrambe magnifiche come tutte quelle di Francesca Grossi per Geograph Records: accostato all’iperbolico Shell, esuberante pur nella sua malinconia di fondo, Pearl è un disco estremamente compassato, organico e fedele a un’idea di fondo, senz’altro l’apice della vicenda Trapcoustic. Molti i riferimenti musicali in filigrana per un suono che in fin dei conti somiglia a poco altro. Le dodici tracce sono vestite di un’allure vagamente goth che più che ai Cure, band a cui il Di Trapani pare sia particolarmente legato, si avvicina ai risvolti molto più pop di Echo & The Bunnymen, con la testa alla lezione di Canterbury e il piglio lo-fi marchio indelebile della (non) scena di Roma Est.
Se stessi scrivendo su un ben incellofanato inserto culturale di qualche quotidiano e non stessi parlando di uno pronto a buttarla in caciara da un momento all’altro, lo definirei il disco della maturità.