Transmissions VII

A Hawk And A Hacksaw

Ravenna.

La considerazione che il Transmissions Festival ha della musica è molto ampia, libera e cooperativa. Da tre anni si ricerca la collaborazione diretta con altri artisti per curare e organizzare uno degli eventi più interessanti riguardanti la musica in senso lato. Dopo Stephen O’ Malley e Daniel O’Sullivan sono gli A Hawk And A Hacksaw i curatori della settima edizione del festival. I presupposti sono ottimi, anche chi si è occupato delle grafiche è un nome di spicco, si tratta di Rob Carmichael, collaboratore di 4AD e ideatore delle copertine di Animal Collective e Beirut (fra gli altri). I concerti sono affiancati da mostre, eventi e parate per tre giorni di spensieratezza e arte.

Giovedì 20 marzo. I due volti del Nord America, coi muscoli della Svezia.

Deerhoof

L’elemento chiave è uno spiccato senso del vario, un insieme di generi e stili che produce quei contrasti tanto amati da chi in musica ricerca, oltre ad ascoltare. Ed è quindi con Raven Chacon, il primo dei bizzarri nomi proposti, che questo scontro ha inizio. Direttamente dalla Navajo Nation, è uno dei membri di PostCommodity, collettivo d’arte di indiani d’America, attivo in ambiti visivi, happening, installazioni e musica. Due delle sue arti verranno qui esposte, stasera la parte sonora e domani alle ex artificerie una sua mostra. Nonostante si occupi anche di musica da camera, sarà la faccia noise a sventrare le porte del festival, un’inaugurazione non indifferente: pedaline e distorsori vari, quindi, rigorosamente in mezzo al pubblico. Trasposto in fatti il set si presenta bene: l’utilizzo della luce generata da una torcia come fonte di suono crea effetti sia visivi sia sonori. Un altro utilizzo particolare è quello che si fa di un corno di animale collegato a un microfono a contatto. In realtà, a parte queste due alternative, il resto non è esaltante, ci racconta poco del mondo di Raven Chacon e non rimanda a una qualche caratteristica particolare. Rimane in ogni caso un buon inizio serata.

Seguono poco dopo gli OvO, il gruppo di casa, da poco risorti con il nuovo Abisso (Supernatural Cat). L’evoluzione sembra più marcata sul palco rispetto a quando uscì Cor Cordium: le maschere sono sparite (al loro posto alcuni segni sul viso) e i suoni si sono fatti molto più pesanti. Le percussioni di Bruno Dorella si incrementano: al complesso di tamburi e piatti si unisce un pad per gli effetti e l’insieme si fa più cupo e rotondo, come immerso nel mare. Stefania Pedretti, invece, guarda alle chitarre dei lavori più classici: acidità e volume ricordano il periodo Load, ma lo sposalizio con i tamburi ne altera il significato e fa notare l’influenza che il circolo Malleus ha avuto sugli OvO di oggi. Ritmati al punto giusto, durante “Tokoloshi” fanno muovere anche il pubblico. I due set a cui ho assistito finora si fondono in una suite di una ventina di minuti, durante i quali Raven Chacon si esibisce con un flauto e i soliti distorsori, mentre gli OvO creano un jingle inquietante interrotto da esplosioni di batteria.

Ci si aspetta molto dai Fire!. L’unica incertezza è su quanto avrà da dire Gustafsson con il sax, visto che sembra aver dato meno spazio a questo strumento rispetto al solito in (Without Noticing), uscito per Rune Grammofon, valorizzando invece le tastiere e i bassi. La risposta è una buona via di mezzo. Il trio – composto anche da Johan Berthling al basso e Andreas Werlin (Wildbirds & Peacedrums) alla batteria – si presenta carico sul palco e senza troppi complimenti comincia a pedalare un sound totale. La prima parte è dedicata alle tastiere – ma per tutto il tempo la batteria giocherà un ruolo di spicco nel concerto – mentre il basso adempie al suo dovere di creare un riff costante per far giocare gli altri due componenti. È nel secondo tempo che i polmoni di Gustafsson si gonfiano e con essi anche la situazione: vederlo suonare è stremante persino per il pubblico, il suo fiato è così compresso che ci investe violentemente. Nel complesso magari si attendeva qualcosa di più lungo e estenuante, in ogni caso si può dire che sanno il fatto loro.

Il primo giorno di festival si conclude coi Deerhoof, uno dei gruppi più incredibili di tutto l’evento nel suo insieme. Anche in questo caso ci si chiede se l’eccessiva elettronica dell’ultimo Breakcup Song (Polyvinyl Record Company) non avrà distrutto troppo l’essenza della band, ma come per i Fire! questa preoccupazione viene meno. Chitarre, basso/voce e batteria sono disposti in linea retta sul palco, così da riempirlo e lasciare comunque la possibilità ai componenti di muoversi liberamente – cosa fondamentale per loro (che sembrano tutti usciti dal liceo) – in uno stile che farebbe invidia ai Sex Bob-Omb: John Dieterich continua a buttarsi sulle ginocchia verso l’ampli, Ed Rodriguez si dimena in un headbanging sfrenato, Greg Saunier sembra aver preso ogni tipo di droga nonostante abbia bevuto solo tè durante la serata, infine Satomi Matsuzaki è una vera regina e con la sua grinta, insieme ad un basso simile a quello usato da Paul McCartney, traina lo show e lo trasforma in qualcosa d’indimenticabile, ballando e saltando con movimenti distaccati ma allo stesso tempo genuini. Quando la Matsuzaki canta, tutto sembra avvolgersi in una bolla eterea che esplode solo nel momento in cui gli altri musicisti decidono di tirare giù i muri del Bronson, mandando in delirio chiunque sia presente. Tra riff miracolosi, balli psichedelici e piccoli frangenti comici offerti da Saunier in un italiano maccheronico, i Deerhoof chiudono con un bis che prevede la collaborazione del pubblico per cantare cori in tempi assurdi, ma la nostra goffaggine rende il tutto ancora più divertente. Si sente e si vede che la band è proprio di San Francisco: spettacolare da ogni punto di vista, il live che ha fatto qui rimarrà negli annali del locale, e non solo in quelli.

Venerdì 21 marzo. Il Gypsy Beat del Pesce Freccia.

King Naat Veliov

Nei due anni precedenti, quelli che hanno fornito al Transmissions una forma più strutturata, il festival era più stretto ed allungato, quindi meno live a serata ma quattro giorni invece di tre. Ora sembra meno dispersivo: due giornate al Bronson e una, questa, alle ex artificerie Almagià, senza cambi di location nelle 24 ore. Gestione ottimizzata, dunque, l’evento dura il giusto e vanta un programma davvero originale, che trova un grande equilibrio tra ascolto e divertimento. Quest’ultima considerazione vale soprattutto per il venerdì, che ospita una serie di gruppi balcanici. Serve precisare, poiché se n’è parlato molto, che in questo caso la musica è “vera”, folkloristica. Visto che spesso si tende a confondere la questione della world music con fenomeni come Omar Souleyman, l’ultimo Goran Bregović o, in maniera diversa, la scena tuareg, oggi siamo davanti a maestri classici, che sono ancora inseriti nel loro ambiente e vengono decontestualizzati solo per questo evento. Il sapore di autenticità si gusta con piacere.

Ogni band viene presentata a turni dai due A Hawk And A Hacksaw, Heather Trost e Jeremy Barnes, eccitati dall’idea di aver portato i loro musicisti preferiti da tutta Europa, e non solo. A inaugurare questo secondo giorno è Balázs Unger, il famoso suonatore di cembalo a cui piace variare dal più comune uso degli ottoni a qualcosa di nicchia che preserva un fascino antico. Il palco è spazioso, forse lo strumento è posto leggermente troppo indietro, ma questo fattore non influenzerà molto l’ascolto. Non appena Unger sale, rivela la sua simpatia e la sua umiltà, poi, prima di eseguire i pezzi, spiega brevemente in cosa consistono i suoi spartiti, per lanciarsi subito dopo in un susseguirsi di temi ungheresi, bulgari e gitani, quindi da toni lenti e più cantautorali (spesso è utilizzata la voce) a ritmiche festose e quasi danzabili. Ciò che stupisce è il virtuosismo dimostrato, una tecnica fine e precisa, una velocità alla Derek Roddy e una personalità molto espansiva. Gli ultimi due pezzi, una sua interpretazione sempre di musiche tradizionali, vengono eseguiti in duo con Barnes al tapan, e creano un’atmosfera ancora più allegra e già da ora si possono vedere i primi passi del pubblico nella danza.

Come ho appena scritto, la struttura del festival è pensata bene. Un esempio è rappresentato dal come sono stati disposti i gruppi: sia il primo sia il secondo giorno sono iniziati con dei solisti, per poi continuare in modo sempre più intenso nel running order, con tanto di fusioni tra le varie line-up. La foga, già attizzata da Unger, viene fuori del tutto grazie a Nedyalko Nedyalkov e ai musicisti che lo accompagnano. Anche qui si assiste a una sorta di presentazione di strumenti tradizionali, a partire proprio da Nedyalkov, specializzato nell’utilizzo del kaval, un flauto in legno tipico dei Balcani. Gli altri strumenti, tutti provenienti da quei luoghi, sono un violino (non immaginatevi quello classico che vedremo più avanti con Zoran Dzorlev), un tapan e una chitarra acustica (anche questa di forma non convenzionale). I musicisti sono, professionalmente, vestiti di nero, quasi a voler mettere in luce la bellezza – anche fisica – dei loro ferri del mestiere, esaltata da un capacità di suonarli da conservatorio. Questa competenza si sprigiona durante ogni secondo del concerto: anche qui tutti i pezzi sono preceduti da una breve introduzione e la musica risulta trainante, ma soprattutto incantatrice. È incredibile cosa Nedyalkov & Co. riescono a generare. Il tapan favorisce un’ottima base su cui ricamare ogni nota a tempo, e questo aiuta la gente a muoversi, senza però farle staccare gli occhi anche solo per poco dal quartetto, che si destreggia con carattere nei suoni. Nedyalkov non copre il ruolo di protagonista, ogni strumento gode di una parte di spicco e di momenti di evidenza. Di particolare enfasi il lungo assolo di tapan, che genera scalpore ed estasi nel pubblico, affascinato da questa perla di estrema bellezza.

Dopo un live del genere i toni non possono calare, ormai l’atmosfera è carica di fervore, ed è il trio formato da Bajsa Arifovska, Zoran Dzorlev e Ratko Dautovsky a prendere in mano le redini. Questi ospiti sono d’eccellenza e si sente, i loro curriculum vantano fra le più importanti orchestre macedoni, e di queste origini verrà raccontata la storia tramite le musiche del loro paese. La formazione presenta due violini classici e percussioni. La storia comincia con brani meno popolari, lenti e di piacevole ascolto, ma forse non in perfetta continuazione rispetto all’appena finito set di Nedyalkov. Ma il dialogo ci mette poco a divenire caldo e presto i due violini alzano la velocità e non permettono più a nessuno di rimanere seduto. Bajsa Arifovska, oltre ad essere specializzata nel violino, è capace di suonare strumenti come kaval, tambura, tapan e gajda (una cornamusa in pelle, della quale ci fa sentire lo strano suono in un lungo pezzo trascinante e quasi carnevalesco). Verso la chiusura i musicisti scherzano con Mozart, “remixandolo” e chiudendo il concerto sulle note che gli hanno rubato (ma proposte “in chiave macedone”).

Ieri con i Deerhoof ci si è divertiti, si è ballato, cantato e festeggiato. I corrispettivi di stasera sono King Naat Veliov & The Original Kočani Orkestar, un live estremo e trascinante, un’eterna ripetizione di note e piccole variazioni nel nome dello spasso più balordo. Sei componenti, cinque ottoni e un tamburo, tromba, sax, tre tube. Musica ripetitiva a livelli quasi psichedelici, ma che esprime gioia e, anche qui, festa. Una festa che durerà fino a quasi le due di notte, con danze in gruppi e in cerchi formati tenendosi per mano. A un certo punto quasi tutti ripongono i loro vestiti pesanti in un mucchio creatosi al centro e si scatenano a quel ritmo che in questo caso è facilmente riconducibile a quello divenuto più famoso grazie a Goran Bregović, e non è una coincidenza che sia stato proprio lui a lanciarli. Quindi ottoni a più non posso in un baccanale che – anche quando accenna a finire – è sempre pronto a ripartire più rapido e potente di prima. Tutti si muovono, tutti ridono, King Naat Veliov è un personaggio che ad alcuni sembra uscito da un film di Kusturica: con la sua tromba urla note quasi jazz e sembra quasi giungere all’improvvisazione, ma rimane sempre perfettamente nel contesto. L’orchestra esce di scena, il pubblico chiede il bis e questo viene proposto non amplificato e suonato in mezzo alla gente, per un’ultima grande danza tutti insieme in onore di una serata di raro e affascinante contenuto.

Sabato 22 marzo. La summa elettrica.

Mouse On Mars

Il terzo e ultimo giorno tira le somme del festival, fa un breve riassunto – grazie a tre concerti diversi – di ciò che è avvento nelle due serate precedenti, aggiungendo un finale che lascerà stupiti i più e increduli gli altri.

Il collegamento con il 20 marzo è affidato ai Father Murphy, che ci mostrano la parte più oscura del festival. Recentemente la formazione si è ristretta (ha perso il batterista), ma il riassetto non cambia la qualità di un gruppo che si è sempre distinto per originalità e idee. Sono chitarra e tastiere, quindi, a tracciare la via. Molti sono gli effetti, le voci e le distorsioni utilizzate, come si è potuto sentire nel nuovo Pain Is On Our Side Now (Boring Machines, Aagoo Records, NO=FI Recordings), e la formula funziona nonostante nell’album fossero ancora in tre (curiosità: il mastering del disco era stato affidato proprio a Greg Saunier dei Deerhoof). La luce non penetra nel live, che fa pensare a una sorta di rituale intorno a un tema disperato come il fallimento. La voce di Chiara Lee squarcia i nostri sensi: “Fail, fail, fail…” e io non posso che rimanere inchiodato al mio posto.

Come si può immaginare, il riassunto della scorsa serata decidono di eseguirlo gli A Hawk And A Hacksaw, che si presentano in formazione speciale con il già noto Balázs Unger e due musicisti dalla Turchia che studiano musica gitana: Cüneyt Sepetçi al clarinetto e Ozanit Alaattin al darabouka (tamburo in terracotta d’origine ottomana). Questo connubio di stili e generi è perfetto per farci rivivere tutta l’intensità delle precedenti formazioni etniche, anzi aggiunge anche una parte importante: l’impronta del New Mexico che si sposta in Est Europa. Mozzafiato il modo in cui una fisarmonica si può fondere ai suoni del clarinetto e come allegri scambi di singole note fra violino e cembalo comunichino tanto all’ascoltatore, il tutto sui ritmi sfarzosi del darabouka. Alcuni pezzi vedono l’emissione dei soli strumenti, altri l’alternarsi di questi con la candida voce di Heather Trost. Solo un brano viene concesso esclusivamente alla coppia di Albuquerque, che però non aggiunge molto al resto del live, che si tiene in piedi soprattutto grazie agli ospiti turchi, di un livello di gran lunga superiore.

Arrivo soddisfatto all’ultimo gruppo della serata, augurandomi che quest’ultimo allontani la fine il più possibile. Ancora adesso mi sento straniato da questa conclusione, che ha riportato alle mie orecchie suoni che pensavo di aver dimenticato. Sul palco sono presenti due pannelli davanti a ognuna delle postazioni dei Mouse On Mars e un grande telone dietro. Su tutti questi “schermi” vengono proiettati dei video che a tratti potrebbero ricordare quelli di Sansculotte, molto adatti al tipo di elettronica che ci sommerge. Coloro che si aspettavano tranquillità escono subito dalla sala, la potenza del suono e i bassi che ormeggiano la band nel porto dell’IDM spaventa qualcuno, ma (re)invita i temerari a scendere in pista e ballare. Infatti il set è impostato in pieno sulla linea della musica da dancefloor, si sente bene la ricerca alla quale i Mouse On Mars sono avvezzi, ma si nota anche la voglia che hanno di far saltare la gente e scatenarne la follia. Molti dei sample usati stupiscono, alcuni sono da vera e propria festa techno, ma considerando la posizione che i due ricoprono all’interno del Transmissions è inevitabile che vada così. Fumo, luci, volume e ritmo… l’energia continua.

Il dancefloor ritorna ad essere pieno con Paul Collins degli americani Beirut, che tiene calda la serata ma non troppo. Dopo i Mouse On Mars molti decidono che hanno dato a sufficienza e abbandonano il Bronson. Poco dopo anche io ritengo che si sia fatta quell’ora e mi dirigo alla stazione, mentre ripenso a quanto il Transmissions sia sinonimo di qualità.

Ci tengo a ringraziare l’associazione culturale Bronson per il magnifico evento e Matteo Bevilacqua per le foto a corredo del pezzo.