Tommaso Cappellato tra collettivi immaginari e viaggi astrali
Nelle trasformazioni costanti di Tommaso Cappellato, batterista Jazz dall’approccio molto innovativo ma con l’attenzione sempre a coloro che hanno tracciato la via, si può inquadrare un percorso artistico ben definito che ha un suo scopo e una sua missione, e in questo si rivede molto quello che ha reso grandi coloro che ora rappresentano le fondamenta del genere: la continua ricerca di un linguaggio riconoscibile e unico grazie alla malleabilità di un genere che basa la sua costante trasformazione su di un linguaggio solido e chiaro.
Tra la nascita della sua label, Domanda Music, con sede a Los Angeles ma alla ricerca di artisti italiani, e Il Collettivo Immaginario, un trio assemblato nella città di appartenenza, Padova, ma lanciato nel cosmo dalle lezioni di Azymuth, Lonnie Liston Smith, la carriera di Tommaso Cappellato continua ad essere alimentata dalla necessità di formare se stesso come persona e poi anche come musicista.
Durante il collegamento a oltre 10.000 km di distanza abbiamo parlato delle sue nuove realtà ma anche del Jazz come forma di socialità, di Pharoah Sanders, di afrocentrismo e moda, della musica italiana della Golden Age e di come l’Italia abbia ancora molto da imparare su certi aspetti.
Come va?
Tommaso Cappellato: Molto bene. Sto facendo tantissime cose perché sto seguendo Domanda Music, tra le attività principali che mi riguardano in questo momento. Sto lavorando già alla prossima uscita dopo quella del Collettivo Immaginario del 23 settembre. Sarà di una cantante compositrice che si chiama Alessia Obino che ha fatto un bellissimo disco incentrato sull’attivismo politico con tematiche razziali, si parla del movimento Black Reinassance degli anni Settanta, Black Panther, quindi vuole essere un tributo al Jazz ma con una matrice di attivismo politico molto interessante che si può applicare anche alla nostra situazione di oggi. Temi di cui bisogna parlare.
Personalmente ho una residence artistica in cui suono ogni settimana in un club a Los Angeles piuttosto conosciuto, perché dagli anni Trenta ha avuto tante vite, ristrutturato diverse volte, si chiama Clifton’s Republic, ed è stato disegnato dallo stesso architetto di Disney, quindi molto particolare dentro. La band l’ho chiamata Explorare, come in latino, con artisti ogni volta diversi, alcuni magari vengono come guest. La gente balla, facciamo un repertorio Jazz-Funk oscuro, degli anni Settanta, quindi George Duke, Patrice Rushen, Minnie Riperton, Marvin Gaye però sempre cose meno conosciute. Continuo a registrare cose mie un po’ estemporanee, nuove collaborazioni, ho appena registrato come batterista in un disco che uscirà l’anno prossimo di Mocky, questo producer canadese, producer anche di Feist, Jamie Lidell, ha collaborato anche con Vulfpeck (ora infatti mi trovo a casa sua). Stiamo iniziando a collaborare con questa cantante che si chiama Maylee Todd che è su Stones Throw, stiamo intessendo un rapporto con Mndsgn. Poi, la scena qui a L.A. diventa sempre più familiare, quindi si stanno creando intrecci e collaborazioni.
Considerando altri generi musicali, il Rock, il Rap etc. che hanno avuto momenti di grande fama e altri momenti di più bassa intensità, il Jazz non è mai stato un fenomeno di massa ma si è sempre autoalimentato. Il merito potrebbe essere di queste costanti sinergie che si innescano contrariamente a quanto avviene negli altri generi? Un po’ quel “tutti per uno, uno per tutti” che ha permesso al genere di essere presente ma magari mai protagonista principale?
La scena Rock non la conosco per niente, mai frequentato in Italia e all’estero, però per quanto mi riguarda la mia trasferta qui è dovuta al fatto di essermi sentito molto isolato per tutti gli anni vissuti in Italia. Per quanto si cerchi di fare rete è una scena molto piccola, ancora molto frammentata, proprio com’era l’Italia prima dell’unificazione e forse siamo ancora così nello spirito, come atteggiamento. Credo sia dovuto anche all’assenza di un’industria vera e propria, di un giro economico che possa giustificare l’esistenza di una comunità e questa frammentazione magari è data dall’esistenza di così poche risorse, per cui quando qualcuno vi accede cerca di tenersele strette. Se prima lo reputavo un atteggiamento molto egoista, adesso non è che lo giustifico però lo capisco come esperienza umana e istinto di sopravvivenza. Qui ci sono molti più soldi che girano, forse grazie anche ad un’industria più ampia, per la musica ma soprattutto per l’esistenza del cinema, che vuol dire Hollywood ma vuol dire anche chi lavora alle serie di Netflix che decide con quale compositore lavorare. È un territorio a cui ancora non ho avuto accesso e spero di averlo presto, ma in generale c’è tutta una schiera di addetti ai lavori che guarda anche a quelle situazioni più creative, di cui faccio parte, e quindi anche il fatto che ci sia un club con la capacità di pagare una band di quattro elementi, più fonico, più dj con un budget molto consistente e farli esibire ogni settimana non è una cosa da poco. Io una gig così non l’ho mai vista, non so se c’è nel mondo una situazione con una resident band ogni settimana con quel tipo di budget lì, per cui mi sto facendo molte domande al riguardo e mi sto rispondendo in tante maniere: sicuramente l’aspetto della risorse economiche, ma anche una curiosità e propensione ad andare avanti nella visione, creare mondi nuovi musicali, e può solo avvenire attraverso vari stili che si incontrano: il Jazz più tradizionale che si intreccia con l’Ambient, l’Ambient con l’Avant-Garde, l’Avant-Garde con l’Elettronica per poi rifare il giro. Questo avviene molto più che in altre città, a New York non avviene così perché lì è più importante preservare la storia di ciascuno stile e quindi hai il Jazz Lincoln Center, istituzioni che hanno più a che fare con l’avanguardia ma adesso anche l’avanguardia in realtà è un linguaggio obsoleto. È molto interessante notare come lì non avvenga una fusione come qui, secondo me.
Quindi non è un discorso solo di genere ma anche di luogo?
Sì, e poi c’è un altro aspetto: la performance. Qui ci sono tanti concerti che vengono presentati in mezzo alla natura, succede anche in Italia ma sempre all’interno di festival mentre qui non sono festival, sono serie, serie itineranti. Noi per esempio a Padova siamo fortunati ad avere questa serie di concerti del centro d’arte che tratta più musica Avant Jazz, Avant-garde, ma sempre in un contesto teatrale, così che rimane un po’ fine a sé stesso. Qui la curatela avviene molto nei parchi, ovviamente il tempo lo consente, però questo induce anche alla socialità di un certo tipo. C’è questa etichetta, Leaving Records, il patron è Matthew David, un genio, e tira fuori cose dal Jazz all’avanguardia, Ambient, Beats, si autodefinisce una label che non ha genere, anzi All Genres label, che non avrà mai proprietà dei master dei musicisti. Una volta al mese, il primo sabato di ogni mese, fanno questi concerti in un parco meraviglioso, fai picnic, non devi pagare niente mai puoi fare una donazione, però è un concerto che riesce ad autosostenersi perché lui cerca questi nuovi modelli di industria. Sicuramente partendo da qui sta avendo una risonanza molto importante.
Quello che dici conferma ciò che cerco di raccontare da un po’ (con articoli, in radio) rispetto al Jazz, almeno qui in Italia, come nuovo collante sociale per i ventenni, com’era ai miei vent’anni con l’Hardcore Punk.
Se questa cosa venisse promossa di più da chi è già affermato nell’industria, potrebbe veramente avere delle conseguenze significative. Come label (Domanda Music, ndr) ho partecipato ad un panel della Federazione Italiana Musicisti Jazz, già questo nome è di una pesantezza enorme, e lì ci sono i matusa delle jazz records labels che figurati, non hanno neanche la predisposizione mentale a voler fare un percorso diverso da quello che hanno affrontato fino ad adesso, ma è necessario perché la metodologia di acquisizione della musica sta cambiando. Già io stesso faccio i vinili, ascolto i vinili, ma spesso la musica la ascolto via telefono o computer, senza neanche un Bluetooth speaker e magari ascolto un brano, la playlist Spotify, il Mixcloud della web-radio di turno, questo ha delle conseguenze su come deve essere presentata la musica, su che tipo di comunicazione puoi fare, cosa vuoi dire, quindi insomma ce n’è di strada da fare ma sono contento di essere qui, di fare parte di una comunità molto progressive, ecco.
A proposito dei matusa delle grandi case discografiche: è nata la Blue Note Africa, una costola della casa discografica che si interessa solamente di ciò che musicalmente avviene in Africa, in Sud Africa in particolare. È una scelta perché ora parlare di musica in Africa è una moda o perché… (non finisco la domanda che lui già fa cenno con il capo facendomi capire quale sia la risposta).
Non c’è niente che si muova per ideali, è tutto un fattore legato all’hype, al fatto che ormai non si possa più ignorare che gran parte della musica che ha influenzato il mondo venga da lì. E poi, non c’è stata più neanche la conversazione riguardo il tema dell’appropriazione, una questione prima molto scomoda che ora è argomento caldo e quindi ci sono dei musicisti ancora in Europa che si stanno dando una grande mazzata sui piedi proponendo degli immaginari africani. L’altro giorno proprio un amico di New York che scrive per Pitchfork mi ha parlato di questo artista italiano che sta proponendo tutto un immaginario africano e chiedendomi se ne sapessi qualcosa. Il comunicato stampa era arrivato anche a me e non ho voluto investigare perché la trovo un’operazione orribile, quindi non vale neanche la pena fare il suo nome o il denunciare perché gli fai ancora più pubblicità, è una cosa che dev’essere seppellita, tanto che non lo dico neanche a te chi sia. Però, ecco, questo parlarne anche in maniera inadeguata porta a dire “va bene, allora andiamo alla fonte”, ed evidentemente questi della Blue Note sono andati a scavare e poi hanno probabilmente guardato le chart matrix dei Twitter e IG account per vedere chi sono gli artisti più seguiti lì e saranno andati. Non c’è niente di nobile in quello che fanno le grandi label, parliamoci chiaro.
Il disco del Collettivo Immaginario è uscito il 23 settembre, tu sei molto vicino anche all’Astral Jazz, Pharoah Sanders, padre dell’Astral Jazz, ci ha lasciato il 24 settembre. Coincidenze che fanno un certo effetto.
E John Coltrane è nato il 23 settembre. Ovviamente è tutto casuale, quando avevo designato la data al 30 settembre, perché mi sembrava fosse meglio uscire non troppo a ridosso dell’estate, la Mother Tongue propose il 23 come data migliore e quindi ho accettato perché era appunto il compleanno di Coltrane. La morte di Pharoah Sanders l’abbiamo seguita in prima persona perché siamo in una comunità molto vicina a lui, tra l’altro con Mark de Clive-Lowe è appena uscito un disco in estate sulla musica di Sanders registrato qui nel 2018, per cui caso assoluto. Quando abbiamo fatto il release party con Dwight Trible alla voce, molto vicino a Pharoah Sanders, lo aveva visto il giorno prima e ci aveva parlato di una condizione di salute non buonissima, anche se poi era addirittura riuscito ad andare al We Out Here Festival con Gilles (Peterson, ndr) in agosto, poi era tornato e a Tomoki, che doveva essere parte di questa registrazione, aveva detto: «Beh, se fai della mia musica, non voglio tu faccia un tributo a me», questo sempre nel 2018. Insomma, ci sono tutti questi intrecci però noi non abbiamo nessun merito. Questi sono i maestri che hanno tracciato le vie originali e non c’è niente di così nuovo che noi possiamo fare, cerchiamo solo di combinare il linguaggio che così assiduamente abbiamo studiato e veneriamo e onoriamo e con umiltà cerchiamo di riproporlo con una nuova estetica, metodi di registrazioni attuali, intrecciando varie influenze. Diciamo che il live non morirà mai, io penso che questa cosa sia molto vera, per cui è importante avere una band che intrecci stili diversi con molta genuinità ed onestà, come abbiamo fatto con il Collettivo Immaginario. Come ho scritto nella press release, c’è la lezione del Cosmic Jazz di Lonnie Liston Smith e Herbie Hancock, c’è l’influenza degli Azymuth, dei compositori italiani con la cui musica siamo cresciuti nelle orecchie in tutti questi anni senza rendercene conto. Questa attuale attenzione verso un certo stile noi italiani ce la siamo trovata un po’ così all’improvviso e dici: «sì, ma noi siamo cresciuti con questa musica dei film di Lino Banfi», di cui non sono per niente fan, o di Sordi. Proprio con Mndsgn è successa questa cosa tempo fa che ho già raccontato in un’altra intervista arrivata dal Portogallo: eravamo in spiaggia insieme e mi dice: «c’è questo pezzo di Piero Piccioni si chiama “Detours”». È incluso nella colonna sonora di “In viaggio con Papà”, che non mi son mai cagato perché sono quelle robe po’ cheeasy che dico “vabbè, dai…”. Insomma, ho riguardato il film e non sono riuscito a carpire bene, concentrato sulle immagini, però dopo averlo ascoltato a parte e c’è ‘sto pezzo che (si mette le mani in faccia ancora incredulo e fa una pausa)… ascoltalo Renato perché è una cosa pazzesca, un pezzo della madonna. Mndsgn quando va in tour con la sua band lo ripropone dal vivo. Noi questa musica ce l’avevamo a casa, quindi non è neanche ciò che stanno facendo Nu Genea adesso, è ancora un’altra cosa e appartiene di più al mio mondo perché quel sound sto cercando di svilupparlo dal primo disco di Astral Travel in poi. Penso che Collettivo Immaginario, anche se ho creato io la band tutti e tre siamo coinvolti in maniera equa e solidale, sia nato da un’esigenza pratica, dalla voglia di suonare aumentata forse anche dal fatto che il mio agente Saurini mi diceva di non fare le gig locali a pochi spicci, di stringere un po’ la cinghia e fare solo quelle fighe. Ma io ho bisogno di suonare e quindi nel mio studio ho cercato di fare più session con più ragazzi della zona di Padova e la combinazione con Alberto e Nicolò è stata perfetta, loro suonano da Dio. Per mesi e mesi abbiamo solo suonato per il piacere di farlo, registrando le session senza “scopo di lucro” (ride, ndr), e dopo un po’ ho pensato fosse necessario suonare fuori perché era diventato un progetto vero e proprio. La ricerca del nome è stata lunga perché volevo un nome forte e di identità italiana, mi sono rotto i coglioni di cose troppo referenziali, tipo Astral Travel, per cui oggi non farei più una cosa del genere, quindi anch’io mi chiamo in causa per aver attinto ad altro, come con Astral Travel la cui fonte di ispirazione è stata sicuramente Pharoah Sanders ma quel tempo è finito, per tutti.
Infatti, musicalmente il Collettivo Immaginario ha un approccio diverso, più ritmato, più “forma canzone”.
Sì, è più fruibile. Anche la direzione di Domanda Music è di dare più concetti sì profondi e visionari però riuscendo a trovare quell’equilibrio per rendere il tutto più approcciabile, come il disco di Rosa Brunello che è l’apoteosi, è Avant-Garde ma fruibile allo stesso tempo. Pioneered (disco solista di Tommaso con la collaborazione di diversi musicisti, ndr) è forse troppo avant-garde però vedrai che nel tempo la gente lo capirà ancora di più; Aforemention è avant-garde ed è R&B allo stesso tempo. È sempre il mio gioco in cui cerco di trovare un equilibrio per non darti cose eccessivamente scontate, sarebbe troppo facile, non è giusto. È questa la mia sfida, con me stesso, con il pubblico, non voglio darti la pappa pronta. Devi fare un po’ di lavoro, per quello ci sto mettendo anche tanti anni a venire fuori come nome perché la gente ha bisogno della cosa immediata, però sono convinto che in retrospettiva il mio riconoscimento sarà quando la gente riuscirà a capire il lavoro che ho cercato di fare. Spero non da morto!
La scelta dell’etichetta propria fa riferimento a questa necessità di indicare direttamente tu il percorso senza affidarti a qualcun altro?
Yes, e soprattutto dal punto di vista estetico, grafico, creare una linea mia che è sempre stata molto presente, molto chiara: vengo da una famiglia di architetti per cui il design è sempre stato scontato, e infatti per ogni disco fatto ho sempre dato la mia direzione agli illustratori e designer e tutti si sono sempre accorti di quanto avessi le idee chiare. Quindi non solo quello ma anche l’esigenza di non dover aspettare chi di dovere per dare spazio a certi progetti e con Domanda Music l’intenzione è di promuovere sempre di più artisti italiani: anche se la label è americana con sede qui a LA sotto tutti i punti di vista, vuole essere un portale per dare voce a musicisti italiani della scena eclettica, non necessariamente solo Jazz, che secondo me non sono stati troppo considerati dai gatekeeper italiani pur essendo gente di valore. La sfida è cercare di portare questi artisti a dare voce ai loro progetti, se però disposti a capire come creare l’equilibrio tra l’avanguardia, la visione e una approcciabilità per l’ascoltatore, e quindi coloro che mi piacciono e sono disposti a fare questo tipo di percorso voglio poterli mettere fuori. Alcuni sono anche miei amici – che dicono “non mi avrai mai” a cui rispondo “vabbè, sono cazzi tuoi” (ride, ndr) – della mia generazione completamente saltati dalla critica, dai promoter, e quindi è una specie di azione da Robin Hood se vuoi, mi piace molto. Economicamente ovviamente non ha senso, però conto nella retrospettiva, ecco.